“La brigantessa tutto cuore e fucile”
di
Ruggero Guarini
Cercando di seguire la storiografia revisionista sul nostro processo unitario mi sono spesso chiesto per quale oscura ragione la nostra saggistica femminista, votatasi da tempo immemorabile, giustamente, alla scoperta e al rilancio di figure femminili degne di essere ricordate come esempi di donne eccezionali, o quanto meno di raro temperamento e coraggio, non abbia mai onorato nessuna delle non poche figure di contadine meridionali che parteciparono, accanto ai loro uomini, a quella decennale guerriglia antipiemontese che sarebbe passata alla storia, col nome di “brigantaggio”.
La domanda è tornata a stuzzicarmi mentre leggevo un libro appena uscito sulle gesta di una famosa brigantessa: “Michelina Di Cesare, guerrigliera per amore” di Fulvio D’Amore, Controcorrente, pp. 344, 20 euro. Che femmina gagliarda e temeraria, dovette essere quella Michelina! Che fra l’altro, dalle poche fotografie che di lei ci sono rimaste, in una delle quali appare nel costume delle contadine della Campania, di cui era originaria, fieramente in posa con una mano su un fianco e l’altra appoggiata alla bocca della canna del suo fucile, risulta che fosse anche molto bella. Perché dunque non considerarla meritevole di un posticino speciale nell’albo d’oro dell’eroismo delle donne? Riassumo la storia della sua vita. Nata poverissima nel 1841 a Caspoli, frazione di Mignano, in Terra di Lavoro, oggi in provincia di Caserta, ebbe un’infanzia disagiata. Insieme al fratello, da ragazzina, secondo una nota del sindaco del suo paese, commise piccoli furti e abigeati. Nel 1861 si sposa con il pastore Rocco Tanga, che però morì l’anno seguente. Nel 1862 conobbe Francesco Guerra, un ex soldato borbonico e renitente alla leva indetta dal nuovo Stato, il quale datosi alla macchia, diventò un temuto capobanda. Michelina, diventatane l’amante, lo raggiunse in clandestinità, forse lo sposò in una chiesetta del casertano e diventò subito un elemento di spicco della banda del suo uomo, anzi uno dei suoi riconosciuti.
La tattica di combattimento della banda era tipicamente di guerriglia, con azioni di piccoli gruppi che, concluso l’impresa, si disperdevano alla spicciolata per riunirsi in seguito in punti prestabiliti. La banda di Michelina, talvolta singolarmente, talvolta in unione ad altre note bande locali, corse parecchi anni (dal 1862 al 1868) il territorio tra le zone montuose di Mignano e i paesi del circondario, compiendo assalti, grassazioni e sequestri. In particolare si ricorda l’assalto al paese di Galluccio, effettuato con un singolare stratagemma: alcuni briganti erano travestiti da carabinieri e fingevano di condurre altri briganti nella loro foggia, fintamente catturati. Le scorrerie non scemarono neppure quando dopo il 1865 in molte altre zone del Sud il brigantaggio era stato fortemente ridimensionato.
Nel 1868 fu quindi mandato in quelle zone il generale Emilio Pallavicini di Priola con pieni poteri per dare una stretta decisiva alle misure repressive. A tali misure e alle minacce il Pallavicini seppe efficacemente usare le ricompense per le delazioni e le spiate, e proprio una spia fece cadere Michelina e il suo uomo in un agguato. I briganti vennero fucilati e i loro corpi furono messi a nudo ed esposti nella piazza centrale di Mignano a monito della popolazione locale.
Altro che Claudia Mafferi, Adelaide Cairoli, Anita Garibalòdi e tutte le altre donne del nostro Risorgimento! Michelina Di Cesaere, per audacia e fierezza se le mangia tutte. Comunque lei, com‘è noto, fu soltanto una delle tante animose contadine del Sud – campane, lucane molisane e anche laziali – che si distinsero nella lotta armata durante quella vera e propria guerra civile che fu la battaglia, condotta per ben dieci anni, dalle popolazioni meridionali, soprattutto rurali, contro l’esercito piemontese.
Il libro di Fulvio D’Amore non si limita, del resto, a ricostruire, sulla base di un’accuratissima documentazione, la storia della Di Cesare, ma costituisce anche un importante contributo alla riscrittura della storia della conquista piemontese del Sud e della violenta reazione popolare che essa provocò con quella feroce, sanguinaria repressione che conobbe i suoi esiti più feroci nelle stragi di Pontelandolfo e Casalduni.
Riconoscere oggi queste realtà non significa negare la violenza di quella reazione ma è indispensabile sia per ricordare a quale prezzo nel Sud si è compiuto il processo unitario, sia per capire in quale misura il brigantaggio fu il prodotto di un dramma sociale contrassegnato dall’odio di classe e dal rifiuto di riconoscere le ragioni profonde della loro rivolta: un rifiuto che (come ha riconosciuto di recente anche un fan del Risorgimento come Giovanni Russo) all’origine della questione meridionale.