Revisionismo spicciolo

Lo scorso 28 agosto è stato pubblicato dal quotidiano l’INKIESTA un’intervista al Prof. Salvatore Lupo in merito al dilagante revisionismo storico innescato e promosso dai Neoborbonici.
Naturalmente  il professore ha fatto il suo mestiere “splendidamente”, rispondendo, in alcuni punti offendendo, noi ed i nostri ricercatori storici, articolando le solite risposte fedelmente collegate alla più retriva retorica risorgimentale. 
Per dare un’idea, soprattutto ai neofiti, sui personaggi con i quali da 20 anni sistematicamente ci scontriamo, abbiamo ritenuto diramare l’intervista dalla quale emerge prepotentemente il “pensiero ossessivo” di uno dei maggiori cattedratici filo risorgimentali. Tuttavia, per ogni risposta data dal professore, abbiamo curato di inserire una nostra riflessione.

Buona lettura e….calma.
Alessandro Romano
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L’INKIESTA 
del 28 agosto 2012
Intervista

«Contro il Risorgimento è in atto un revisionismo spicciolo»

di
Edoardo Petti

Una grande popolarità e un indiscutibile successo accompagnano da tempo la pubblicazione di libri che denunciano la realizzazione del processo risorgimentale nel Mezzogiorno come un’operazione criminale e autoritaria, coloniale e predatoria, compiuta dalle classi dirigenti sabaude e dalle truppe garibaldine per appropriarsi delle ricchezze del Regno borbonico e ridurre in una condizione servile le popolazioni meridionali. Un filone che trova alimento in un sentimento di rivalsa e vittimismo diffusi in strati significativi dell’opinione pubblica del Sud, e ha portato alla rivalutazione, se non all’esaltazione, di fenomeni come il brigantaggio, sempre più assimilati a movimenti di guerriglia locale contro le prevaricazioni e i soprusi degli “invasori nordisti”. 
Ma le manifestazioni del “revisionismo anti-risorgimentale” poggiano su basi solide dal punto di vista storico e sono suffragate da una rigorosa analisi documentale? E quali conseguenze potrebbe provocare sul piano culturale e civile l’affermazione delle tesi rivendicazioniste? 
Il nostro quotidiano lo ha chiesto a Salvatore Lupo, professore di Storia contemporanea all’Università di Palermo e acuto studioso della vicenda secolare del fenomeno mafioso nel suo legame con il tessuto economico-sociale della Sicilia. Alle problematiche intrecciate con il percorso di indipendenza nazionale e con le sue pagine più controverse, Lupo ha dedicato il volume dal titolo “L’unificazione italiana. Mezzogiorno, Rivoluzione, Guerra civile”, che riassume in modo pregnante la complessità del capitolo fondante della nostra esperienza statuale.
Per Salvatore Lupo, docente di Storia contemporanea all’Università di Palermo, «si tratta di un “revisionismo spicciolo” che deriva da tentativi politici di ricercare nel passato ciò che nel passato non può esistere, di una mentalità recriminatoria che legge la storia per scoprire il “colpevole” dei mali odierni. Nessuno parla delle insurrezioni contro i Borboni».

È possibile e corretto individuare nell’attuazione del processo di unificazione nazionale nel Mezzogiorno una tendenza violenta e rapace, repressiva e brutale, da parte delle autorità piemontesi e dell’esercito garibaldino?

 Prima di tutto è doveroso distinguere le persone che conoscono ciò di cui parlano dagli altri. Nei loro ossessivi e persistenti riferimenti al passato, fasce di opinione pubblica meridionale assemblano critiche e frustrazioni strumentali, che proiettano in un incipit risorgimentale mitico le cause profonde del disagio e delle arretratezze del Sud. Si tratta di un “revisionismo spicciolo” ben diverso da quello degli storici, poiché deriva da tentativi politici di ricercare nel passato ciò che nel passato non può esistere, di una mentalità recriminatoria che legge la storia per scoprire il “colpevole” dei mali odierni. Grazie a spiegazioni superficiali e romanzesche, viene realizzata un’operazione efficace e di sicura presa, soprattutto in fasce sociali poco informate e in un Paese che da vent’anni nutre disprezzo per gli intellettuali e per il metodo scientifico. Con il Risorgimento questo filone non ha nulla a che vedere, perché mescola alla rinfusa fatti accertati con eventi immaginari, opere serie con una pubblicistica tragicomica di largo consumo. Penso a “Terroni” del giornalista Pino Aprile, che non vuole chiarire, così come Giampaolo Pansa per i suoi scritti sulla Resistenza, dove attinge le proprie informazioni. Macchine editoriali che non hanno nulla in comune con il lavoro di storico. 


La nostr
a risposta.

Il problema alla base della storiografia ufficiale è che si tengono accuratamente ed “ossessivamente” nascoste e lontane dalla diffusione, notizie su vicende tragiche e dolorose che, una volta svelate, per la loro efferatezza farebbero certamente presa soprattutto sui ceti medi, unici e veri esclusi da questa informazione perché le principali vittime dell’intero processo risorgimentale. Infatti, una tale sistematica omissione, operata ancora oggi dagli “storici di regime”, appare come una chiusura proprio verso le classi popolari operata anche attraverso l’utilizzo di un linguaggio incomprensibile e canali poco pratici. Ed appunto da questo atteggiamento che prende origine “il disprezzo per gli intellettuali (storici)”.
La presunta finalità politica del revisionismo, definito “spicciolo e superficiale” solo perché spiegato ed illustrato in modo semplice e comprensibile anche ai non addetti ai lavori, è in realtà ciò che da 151 anni fa la retorica risorgimentale costruita ad arte sulle menzogne e sulle omissioni per giustificare le aberranti condizioni sociali e politiche in cui è stata sprofondata la parte sud del Paese, dopo essere stata conquistata e depredata. 
Quelle che per loro sono ricostruzioni romanzesche, sono in realtà vicende emerse dalla consultazione di migliaia di documenti, in parte ancora giacenti negli archivi militari e negli archivi di Stato di mezza Italia, che costoro continuano a voler ignorare con ostinazione. La definizione di “pubblicistica tragicomica” del revisionismo, stride maledettamente con una storia estremamente “tragica” non pubblicata dagli storiografi di “regime”. 
Pino Aprile non ha fatto altro che mettere in evidenza tali gravi colpevoli omissioni e manipolazioni, raccontando in modo chiaro ed immediato le gravi vicende sottaciute.

E quali sono gli errori di merito imputabili alla pubblicistica anti-risorgimentale?


I “revisionisti spiccioli” sembrano scandalizzati dalla presenza della violenza nella storia: violenza che ne rappresenta quasi sempre la regola. Il processo di unificazione nazionale fu una guerra, civile e fra Stati, e le sue vittime innocenti devono essere collocate in tale quadro. Scoprire questa violenza è utile solo a impressionare un pubblico scarsamente informato. È giusto restare sconvolti di fronte al massacro di centinaia di civili perpetrato dall’esercito sabaudo il 4 agosto 1861 a Pontelandolfo e Casalduni nel beneventano, per rappresaglia contro l’uccisione di poche decine di militari ad opera di briganti e di contadini del luogo. Ma un’identica reazione è provocata dalle stragi e dagli stupri compiuti dalle truppe borboniche a Messina nel 1848. 

La nostra risposta.

Non inorridire della violenza operata sistematicamente sulla popolazione nel Risorgimento è come dire che bisognerebbe restare indifferenti di fronte alla violenza usata sulle popolazioni inermi e sugli ebrei dai nazisti. D’altronde anche quella era una guerra tra stati. Se lo storico (risorgimentale) è veramente al di sopra dei sentimenti e della politica, come vorrebbe farci intendere il professore, la similitudine con altri periodo storici è doverosa. Tra l’altro va specificato che quella del Risorgimento non fu una guerra tra stati, ma una feroce guerra di conquista sferrata dal Piemonte dei Savoia contro il resto d’Italia che in qualche modo cercò di difendersi. 
Poi, dire che tali vicende non bisogna raccontarle ad pubblico “scarsamente informato” per non impressionarlo, ha il sapore amaro della “censura di stato”, quando “per amor di patria è meglio sottacere certi scempi sulla popolazione”.
In merito ai fatti di Messina, grazie ad esaustive fonti archivistiche individuate e rese pubbliche da “onesti” ricercatori, oggi il tutto appare chiaro in una squallida messa in scena storica dove nulla appare vero di quanto raccontato dalla mitologia risorgimentale.

L’unificazione nazionale però fu permeata di azioni repressive e di ritorsioni indiscriminate, in aperta contrapposizione con lo spirito che l’aveva ispirata.

Non possiamo prescindere da un dato storico inequivocabile. Al termine del laborioso processo di indipendenza, le popolazioni meridionali riuscirono a entrare per la prima volta in un ordinamento liberale e costituzionale che gradualmente si andò assestando, in cui le tensioni politiche e sociali poterono esprimersi in forma civile e pacifica, grazie al quale fu promosso un autentico sviluppo economico. Prima di allora la società del Mezzogiorno gemeva sotto un regime tirannico, e i primi decenni dell’Ottocento furono contraddistinti dalla spirale di rivolte e repressioni del governo borbonico. Mi chiedo perché non si parli mai di questa violenza. È chiaro che in un processo rivoluzionario e in una cornice di guerra civile fra legittimisti da una parte e liberali, moderati e radicali, dall’altra, vi fu un tasso elevato di violenza nel reprimere il brigantaggio e nel riportare l’ordine. È innanzitutto compito degli storici ragionare con rigore e ricostruire con scrupolo le pagine più oscure di quella stagione, fare luce sui crimini compiuti anche da chi combatteva per il riscatto dell’Italia. Ma parlare di genocidio e di sterminio, fornire cifre fantasiose e abnormi, non corrisponde alla ricerca storica. 
La nostra risposta.

Dalla ricca documentazione parlamentare risulta che il re d’Italia violò decine di volte lo Statuto Albertino (Costituzione), sciogliendo e risciogliendo le Camere a suo piacimento fin quando non veniva nominato un  Governo a  lui più confacente. Tra l’altro un governo nominato all’interno di un parlamento eletto da appena il 2% della popolazione: “L’autorevolezza di una democrazia, si misura dalla quantità di popolo coinvolto”. 
In effetti l’affermazione di Gramsci :”I Savoia prima fecero l’Italia e poi la divorarono” racchiude l’inganno che lo stato liberale dei Savoia operò ai danni soprattutto dei patrioti italiani. Infatti, a dispetto della paternalistica “tirannia dei Borbone”, il governo costituzionale dei Savoia fu espressione della sola classe liberale e borghese, elevata nel censo e nella posizione sociale. Il governo dei Savoia fu nella pratica una “dittatura feroce”, camuffata da stato costituzionale, che aveva ben poco di popolare, visto che rappresentava solo una parte molto limitata delle popolazioni. 
Ignorare le violenze di cui si macchiò questa classe emergente annidata in Piemonte, degnamente rappresentata da un re massone ed usurpatore, significa condividerne ogni atrocità commessa sulla gente.
Pisacane ebbe modo di affermare: “Io credo pure che il regime costituzionale del Piemonte è più nocivo all’Italia di quello che lo sia la tirannia di Ferdinando II ”.
Le rivolte che la massoneria inglese, attraverso i suoi emissari e cospiratori (carbonari), innescò a macchia di leopardo all’interno degli stati italici e, quindi, nel Regno delle Due Sicilie, faceva parte di quella strategia destabilizzatrice preparatoria alla vera e propria invasione che, poi, sarebbe seguita. Non fu, come il professore vorrebbe fare intendere, un’azione di popolo né delle classi sociali del Regno borbonico che godevano di pace e benessere.
Il brigantaggio fu una vera e propria reazione popolare, spontanea e violenta, che si sviluppò all’indomani dell’invasione soprattutto contro l’imposizione dell’ordine da parte dei piemontesi. Quindi, una forte e legittima risposta operata contro la legge dell’occupante e non contro un legittimo governo.
Che gli storici debbano ragionare è vero, ma è anche vero che gli storici non dovrebbero usare aggettivi: provate a contare quanti aggettivi, anche dispregiativi, il professore ha utilizzato.
In merito al genocidio, va osservato che l’intero impianto storiografico risorgimentale è teso a minimizzare, se non a nascondere, l’entità delle stragi effettuate dall’esercito invasore. Gli storici risorgimentalisti si limitano alle cifre citate dalla parte piemontese, ma, come è facile immaginare, nessun archivio militare di parte vincente dirà mai chiaramente quante vittime civili ci sono state durante una guerra di conquista.
Tuttavia, consultando attentamente gli archivi militari e civili e “ragionando” ed incrociando seriamente tutti i dati a disposizione, non è difficile dedurre, con un margine di errore molto esiguo, l’entità delle stragi.

Quale bussola dovrebbe guidare una simile indagine?

L’analisi storiografica deve  riconoscere la dimensione aspra e radicale di quel conflitto fratricida fra due governi ed eserciti entrambi meridionali: quello garibaldino, in gran parte costituito da volontari provenienti dal Mezzogiorno, e quello borbonico, che si andò sfaldando esattamente come avviene oggi fra le truppe di Assad in Siria. Non si trattò di una guerra di liberazione contro un occupante straniero come nel 1943-1945. Fu uno scontro feroce e netto fra patrioti italiani e borbonici reazionari affiancati poi dai “briganti”. Bisogna partire dalle ragioni politiche che opponevano i due schieramenti, per restituire una dignità e una prospettiva storica a tutti protagonisti del conflitto. Fu uno scontro dall’esito imprevedibile, poiché nessuna “divinità della storia” aveva stabilito che il Regno delle due Sicilie dovesse crollare, né che l’unificazione dell’Italia fosse inevitabile. Non era scritto neanche che fosse la classe dirigente sabauda a promuovere e dirigere il processo di indipendenza. Ciò accadde perché lo Stato governato dai Borboni, il più importante della penisola, si rivelò incapace di riformare i suoi ordinamenti e deluse le speranze di numerosi patrioti. 

La nostra risposta.

Quanto affermato dal professore sui garibaldini non risponde al vero, dato che anche di recente è stato pubblicato un elenco dei famosi “volontari”, corredato in buona parte anche da fotografie, con la loro provenienza. Certamente dopo lo sbarco si unirono a Garibaldi anche forze meridionali, per la maggior parte provenienti dalla malavita, anche organizzata, e dai bagni penali.
Non ci fu un vero e proprio sfaldamento dell’Esercito borbonico, ma un forte e sistematico indebolimento tra gli ufficiali superiori corrotti dalla massoneria inglese con ingenti quantità di denaro.
Lo scontro che ci fu, avvenne tra uno stato invasore, finanziato dagli inglesi per non consentire la nascita di una vera Italia nel cuore del Mediterraneo, ed una nazione antica e feconda fondata su istituzioni ed amministrazioni non liberali, ma con caratteristiche proto socialiste, in forte stridore con il nuovo corso mondiale, il progetto liberista innescato e pilotato dalla massoneria inglese. E ciò in risposta all’affermazione che i Borbone (con la “e”) fossero stati incapaci di riformare in senso capitalistico e liberale le proprie istituzioni deludendo la speranza di numerosi patrioti. 
Non è vero che i Borbone non seppero adeguarsi non al nuovo corso mondiale, essi non vollero perché le leggi dello sfruttamento e del ricavo incondizionato violavano quei principi di equità, mutuo soccorso e giusta ripartizione delle risorse poste alla base delle stato da loro fondato a richiamo del cattolicesimo sociale dettato dal santo filosofo Thomas More. 

Ritiene che l’egemonia esercitata dai gruppi “neo-borbonici” sulla produzione rivendicazionistica concorra a impedire una ricostruzione scientifica del Risorgimento nel Mezzogiorno?

Le posizioni e le manifestazioni neo-borboniche puntano a realizzare una sorta di “leghismo meridionale”. La loro letteratura non è opera di storici, bensì di strati della popolazione che guardano al passato con le lenti del presente. Esattamente come i militanti del Carroccio fanno con il Dio Po e con la simbologia dei Celti. Non è un’iniziativa elitaria né marginale, ma a differenza di quanto avviene al Nord essa non trova una risonanza partitica rozza che tuttavia costituisce un segno di vitalità.
Assistiamo alla fioritura di un micro-nazionalismo fondato sulla mistificazione e sulla manipolazione della storia, che va preso sul serio poiché in un periodo di crisi i suoi richiami potrebbero ridurre i fatti a carta straccia e favorire la diffusione delle menzogne a buon mercato. La storiografia sta lavorando seriamente su un terreno così delicato e davanti a una platea di poche migliaia di lettori, nel disinteresse di chi possiede un’infarinatura superficiale del Risorgimento. Un’opera faticosa e meritoria, che purtroppo non viene agevolata dalla visione retorica e oleografica dell’Unità nazionale commemorata lo scorso anno. Fenomeno utile a cementare la memoria e l’identità collettiva, che però finisce per innescare la spirale delle celebrazioni e delle contro-celebrazioni ideologiche. 

La nostra risposta.

L’analisi fatta sui Neoborbonici (non si scrive Neo-borbonici) la dice lunga sulle ulle fonti di informazione di costoro. 
Dire che nelle fila dei neoborbonici non ci sono storici è come negare che nel mare ci sia l’acqua. Tra l’altro concedere la scrittura di libri di storia solo agli storici da loro “patentati”, somiglia molto a quando era necessario avere la tessera del partito in tasca per lavorare. Forse il professore non ancora sa che molti dei loro storici sono passati da questa parte e che, anche grazie al Signore, le loro fila si assottigliano sempre più. 
La verità è che costoro considerano storici attendibili solo coloro che accettano quello squallido servilismo culturale che non consente di svelare le verità nascoste. 
Poi, confondere i Neoborbonici con i leghisti è la prova provata che il professore nulla sa del nostro mondo e che, anche per questo, la sua analisi appare “spicciola” ed infantile.
In merito alle “menzogne a buon mercato” va osservato che quelle loro, si parla di menzogne, non sono mai state a buon mercato considerati i budget di presenza ed i costi dei loro “trattati scientifici” incomprensibili, contraddittori e privi di una documentazione scevra da condizionamenti filo risorgimentali. Infatti i nostri libri, in media, costano un terzo dei loro, benché privi di finanziamenti pubblici, ed i nostri convegni ed eventi traggono linfa economica dalle tasche dei promotori. Purtroppo, per loro, le nostre sono verità e non menzogne a buon mercato.

Non è singolare che la letteratura anti-risorgimentale abbia trovato terreno fertile in una città come Napoli, mai percorsa da pulsioni autonomistiche, e non riscuota adesione nella Sicilia dei tanti fermenti indipendentistici?

Dal 1944 a oggi – pensi alla propaganda promossa da Raffaele Lombardo – la retorica “sicilianista”, che attribuisce ai “nordisti” le colpe della cronica arretratezza dell’isola, è stata scavata fino all’esaurimento. Tuttavia la Sicilia rappresentò nel Mezzogiorno il cuore delle insurrezioni costituzionali e patriottiche contro i Borboni, ben cinque prima dello sbarco dei Mille. Furono movimenti sempre animati dalla saldatura fra le rivendicazioni autonomistiche e le istanze liberali e democratiche di respiro nazionale. Per storia e vocazione, l’isola è estranea a sentimenti di stampo neo-borbonico. E spero che le ragioni della sua autonomia non verranno mai inquinate dalle pulsioni anti-risorgimentali.

La nostra risposta.

Nella non risposta del prof. si cela la risposta. In realtà nella Napoli vera, quella della cultura proibita, quella degli archivi nascosti, quella delle verità “sottaciute per carità di patria” è rimasto vivo e si è alimentato per anni un sentimento di rivalsa contro quella che non fu una vera unificazione, ma un’annessione delle più sconvolgenti e devastanti. In Sicilia, dopo l’annessione piemontese, maturarono reazioni filo borboniche  anche violente, in alcuni casi più concrete e corali di quelle della parte continentale. Le cause restavano le stesse. In merito alle pretese insurrezioni siciliane contro i Borbone, va osservato che ogni conquista del meridione è partita sistematicamente dalla Sicilia. E ciò non solo per un motivo di strategia geografica, ma anche perché le sacche di malavita organizzata ben radicate nel tessuto sociale siciliano, hanno sempre cercato alleanze nei nuovi padroni, negli invasori, investendo in capitali, uomini e potere nel nuovo stato fantoccio che si andava formando. Non il popolo siciliano, ma la malavita, anche organizzata, in Sicilia ha puntualmente aperto la porta agl
i invasori di turno.

FONTE:

http://www.linkiesta.it/risorgimento-revisionismo-terroni-salvatore-lupo#ixzz24rGpfYd8





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