PIETRARSA, 6 AGOSTO 1863
Da tempi non sospetti e grazie alle nostre ricerche archivistiche, fin dalla fine degli anni Novanta celebriamo i primati e i martiri di Pietrarsa. Ora, in tanti, celebrano giustamente la data del 6 agosto per ricordare il massacro degli operai (almeno sette, come documentato nelle nuove e aggiornate ricerche pubblicate in “Noi, i neoborbonici”). Cambia la storia e ne siamo felici e fieri. Memoria, Orgoglio e Riscatto anche a partire da Pietrarsa. Allegata una sintesi storica delle vicende.
PIETRARSA DAI PRIMATI AI MARTIRI
In Italia la prima fabbrica metalmeccanica, per produttività ed estensione, era quella di Pietrarsa. Voluto da Ferdinando II, tra Portici e San Giovanni a Teduccio, a pochi chilometri da Napoli, il Reale Opificio di Pietrarsa fu costruito nel 1842 sul suolo di una vecchia batteria a mare. Nel 1860 era la fabbrica metalmeccanica italiana che occupava più personale: 1050 persone nei suoi ruoli al giugno 1860 (tre mesi prima dell’arrivo di Garibaldi a Napoli). 820 “artefici paesani” e 230 “operai militari” vi lavoravano mentre l’Ansaldo a Genova contava non più di 480 operai e la FIAT a Torino non era ancora nata.
Pietrarsa fu un esempio ammirato all’estero e imitato in seguito nel Regno per la formazione che riuscì ad assicurare agli operai,per la qualità della produzione e per essere riuscita a ridurre il gap tecnologico che il Regno stesso aveva nei confronti dell’Inghilterra e degli altri Stati più industrializzati.
Su una superficie di 34.000 mq.,lo stabilimento possedeva diverse macchine a vapore (163 HP la potenza complessiva), un’officina per locomotive con 2 grandi gru a bandiera,24 torni, 5 pialle, 2 barenatrici, 5 trapani verticali, 2 macchine per viteria e una motrice a vapore da 20 HP; un’officina di artiglieria con 14 torni paralleli, 4 limatrici, una macchina per rigare i cannoni e una motrice a vapore da 8 HP.
Vi erano incluse ancora un’officina per la costruzione di modelli,una fucina con 30 fuochi, una fonderia con 6 fornaci per ghisa, una piccola fonderia per bronzo, l’officina per la costruzione di caldaie con 2 gru, un trapano, una cesoia per lamiere di grande spessore, una punzonatrice, una pressa idraulica, 2 curvatrici per lamiere ed un forno per riscaldarle.
La fonderia dei proiettili aveva un forno a riverbero, 4 fornaci e 3 magli a vapore per stampaggio; la grande ferriera(aggiunta al complesso dal 1853 e chiamata “Officina Ischitella”)aveva macchine a vapore da 100 HP con 12 forni per il ferro grezzo, 4 forni di riscaldo e 5 treni di laminazione per profilati e rotaie (3).
A Pietrarsa si producevano svariatissime opere in ferro ricavandolo “di perfettissima qualità e di grosse dimensioni dal ferro acre dei proiettili inutili”, si producevano caldaie, motrici e macchine a vapore di diversa potenza (per pirofregate come l'”Ettore Fieramosca”, di 300 cavalli o per altre officine)e locomotive complete con sistema “Stephenson” (fino al 1853 ne erano state prodotte 6: “Pietrarsa”, “Corsi”, “Robertson”, “Vesuvio”, Maria Teresa”, “Etna”; 20 complessivamente fino al 1860) (4).
A tal proposito, esempio dello spirito di competizione esistente nel Regno la richiesta fatta a Ferdinando II dalle officine delle Stazioni di Napoli, specializzate nelle riparazioni: per dimostrare di essere capaci di costruire una locomotiva come l’opificio di Pietrarsa, chiesto il permesso al re, costruirono la locomotiva “Duca di Calabria” (5).
Per le ferroviea Pietrarsa si producevano anche rotaie(era l’unico stabilimento italiano a produrle), carri-merci,cuscinetti, manufatti di acciaio e ruote per locomotive.
Vari i macchinari e gli oggetti in produzione e tra essi in evidenza torni, spianatrici, fucine portatili, magli a vapore, cesoie,foratrici, gru, affusti dicannone, apparecchiature telegrafiche o granate, bombe, pompe, fusioni in bronzo, ferri, laminati e trafilati o parti di ponti in ferro (napoletano, del resto, era stato il primo ponte in ferro costruito in Italia).
200 le cantaia di acciaio prodotte ogni giorno (5400 tonnellate all’anno); di oltre un milione di ducati gli investimenti complessivi (6).
Numerose erano state anche le fusioni in bronzo per statue di regnanti e principi.
Dopo le sue numerose e frequenti visite, vi fu realizzata anche una grande statua in ghisa raffigurante lo stesso re Ferdinando II di Borbone che oggi si può ammirare ancora nello spazio all’esterno degli antichi capannoni (attuale sala-convegni?del Museo Ferroviario).
Su una lapide sottostante si può ancora leggere:
“FERDINANDO II
PIO MAGNANIMO AUGUSTO
FRA TANTE OPERE GRANDI
QUESTE MECCANICHE OFFICINE
EMULATRICI
DELLA INDUSTRIA STRANIERA
CREO’ NEL 1842
COME RICORDANZA ED OSSEQUIO
FUSERO IL MONUMENTO
MDCCCLIII”
Presso le stesse officine si trovava un’altra lapide che sintetizzava lo spirito che aveva animato il suo fondatore (prestigio e autarchia) e che aveva costituito la premessa e l’obiettivo della loro fondazione:
” PERCHE’ DEL BRACCIO STRANIERO
A FABBRICARE LE MACCHINE MOSSE DAL VAPORE
IL REGNO DELLE DUE SICILIE
PIU’ NON ABBISOGNASSE
E CON L’ISTRUZIONE DEI GIOVANI NAPOLETANI
TORNASSE TUTTA LA NOSTRA ANTICA ITALIANA DISCOVERTA
QUESTA SCUOLA DI ALLIEVI MACCHINISTI
FERDINANDO II
NELL’ANNO XI DEL REGNO
GOVERNANDO LE ARMI DOTTE
CARLO FILANGIERI PRINCIPE DI SATRIANO FOND “…
Dopo qualche anno pagammo con l’unità italiana tutto questo orgoglio…
Le ultime statistiche dello Svimez e dell’Istat sono chiare e oggettive:
esistono due Italie e nessuno (classe dirigente locale o nazionale che sia) ha fatto e fa nulla. Ecco perché in queste giornate, da circa 20 anni e quando nessuno, purtroppo, neanche li conosceva, il Movimento Neoborbonico preferisce ricordare, con ricerche e preghiere, i “primi martiri della storia operaia non solo italiana”: quelli delle grandiose officine di Pietrarsa, massacrati nell’agosto del 1863 solo perché volevano difendere un lavoro che fino a quando c’erano i Borbone conservavano e che avevano perduto o stavano perdendo in una storia tragica che è più che mai attuale in questi giorni.
Nel Fondo Questura dell’Archivio di Stato di Napoli, foglio 24, è trascritto l’elenco completo dei morti (che secondo alcune fonti arrivarono addirittura a 9) e dei feriti coinvolti negli incidenti: “Luigi Fabbricini-morto- Aniello Marino-morto-, Domenico Del Grosso-morto ai Pellegrini- Aniello Olivieri-morto successivamente, Aniello De Luca, Giuseppe Caliberti, Domenico Citara, Leopoldo Alti, Alfonso Miranda, Salvatore Calamazzo, Mariano Castiglione, Antonio Coppola, Ferdinando Lotti, Vincenzo Simonetti-feriti”.
Sono questi i nomi dei primi martiri della storia operaia italiana.
(G. De Crescenzo, Le industrie del Regno di Napoli, 2002;G. De Crescenzo, “Noi, i Neoborbonici. Storie di orgoglio meridionale”, 2016).
APPROFONDIMENTI
IL RACCONTO DELLA STRAGE DAI DOCUMENTI DELL’ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI (GENNARO DE CRESCENZO, NAPOLI, 2002).
PIETRARSA 1863: LE PRIME VITTIME DELLA STORIA OPERAIA
DALLE OFFICINE BORBONICHE AL MASSACRO
All’estate del 1863 è legato un episodio storico poco conosciuto e poco raccontato ma che risulta ancora importante, significativo e per certi aspetti addirittura attuale.
Tra le carte del “Fondo Questura” dell’Archivio di Stato di Napoli (fascio 16, inventario 78,1) possiamo ricostruire i fatti di Pietrarsa ed analizzarli al di là della cronaca poliziesca, pure interessante, con documenti oggettivamente validi ed in gran parte inediti.
Dopo l’unità d’Italia l’imprenditore Jacopo Bozza comprò la fabbrica di Pietrarsa.
Il suo acquisto era stato favorito dalla svendita dello Stato che intendeva così continuare l’opera di ridimensionamento della struttura produttiva iniziata con le relazioni già citate di Sebastiano Grandis che avevano messo in evidenza solo i suoi aspetti negativi. L’affare fatto da Bozza fu contraddistinto dall’ambiguità e dalla scorrettezza: una lettera anonima dell’autunno del 1863 (fogli 94-96 bis, fascicolo 4) ci rivela che il Bozza, uomo di fiducia dello Stato, “era abituato a vessare i boscaioli” costringendoli a vendere gli alberi per fare i pali delle linee telegrafiche.
Successivamente fu accusato anche di affitti e concessioni irregolari relativi ad una “società nazionale di industrie meccaniche”, insieme ai nobili Luciano Serra duca di Cardinale ed al barone Maurizio Barracco (cfr. “Il Roma” 9 agosto 1863; “La Campana” 23 agosto 1863 ed i fogli 31-37 del fascio citato).
“Era questo l’uomo della scienza e della fede al quale si concedeva lo stabilimento di Pietrarsa? -si chiede l’anonimo autore della lettera – A lui si concedeva il primo stabilimento del suo genere che esisteva in Italia, il più grande e, per le sue specialità, il migliore! Stabilimento ch’esiste in Napoli e non altrove e che sostentava 700 famiglie di operai napolitani e non d’altrove [sottolineato nel testo] e Pietrarsa si cedeva e dava a Jacopo Bozza? L’eccidio di Pietrarsa fu forse in cambio al lavoro promesso a questo nostro popolo? Poveri operai! E’ questo il lavoro delle opere pubbliche che per sostentarle si elevava […]. Ci dessero e cedessero i loro stbilimenti, invece di mandare nei nostri paesi cotesti vampiri ad ammorbarcene fino alla nausea!!”- conclude amaramente l’anonimo estensore di questa lettera che sintetizza efficacemente quello che si stava verificando.
Il Bozza il 23 giugno 1863 promette di impiegare 800 operai (dei 1050 del 1860) ma già agli inizi di luglio lo scambio di lettere “urgentissime e riservate” tra stabilimento e questura si era fatto più frequente perché iniziava a salire la tensione (“muovetevi artefici, che questa società di ingannatori e di ladri con la sua astuzia vi porterà alla miseria”: sono le prime scritte apparse sui muri dello stabilimento).
Bozza dichiara che il lunedì successivo non può fare scendere a lavorare tutti gli operai i quali “avrebbero continuato a percepire la metà della loro paga come da qualche tempo son trattati pel conto del governo” (fogli 4-5-6).
E andrebbero sottolineate queste parole perché rappresentano l’inizio della fine di Pietrarsa e dell’economia meridionale: questa metà della paga concessa dal governo è la prima forma di cassa-integrazione statale, la prima forma di un assistenzialismo passivamente dannoso e diffuso che avrebbe spesso accompagnato l’economia meridionale anche negli anni successivi.
Il 31 luglio del 1863 gli operai erano appena 458.
La tensione cresce ancora, alimentata ad arte dal Bozza e dai suoi. Si promettono pagamenti che non avvengono e si continuano a minacciare licenziamenti (fogli 22-23-27).
E arriviamo così al 6 agosto.
Da un rapporto del delegato di pubblica sicurezza di Portici: “6 agosto 1863; a circa le due pomeridiane di questa giornata mi è pervenuto rapporto dal capo contabile dell’opificio di Pietrarsa, sig. Zimmermann che chiede cinque sei uomini subito perché gli operai volevano un aumento di stipendio ma ne vengono licenziati 60. Ma dopo poco accorre atterrito per dire che non bastavano ed occorreva un battaglione di truppa regolare perché, suonando una campana, come ad un segno convenuto, anche gli operai delle altre officine si erano portati nello spiazzo dell’opificio in atteggiamento minaccioso”.
Il delegato, allora, chiama l’arma dei bersaglieri ed il signor Maggiore Blancardi “disponeva che una mezza compagnia comandata dal Capitano Martinelli e dal Sottotenente Cornazzoni, circondasse il locale e questa, pervenuta al primo cancello d’entrata, si è trovata di fronte alla massa degli operai la quale, per quanto mi si asserisce, ha diretto delle voci insultanti ai bersaglieri e si atteggiava a minacce nello intendimento di impedire il passaggio alla truppa così che la forza ha dovuto calare le baionette per farsi strada,deplorandosi la morte de’ due artefici oltre altri dodici feriti dei quali tutti si osservano i nomi al margine del presente rapporto” [in nota su margine destro si dichiara che “di colpo di baionetta hanno morti due artefici et undici feriti”].
Lo stesso delegato continua affermando che a quei fatti non erano state estranee “suggestioni avverse allo attuale governo poiché sulle pareti prossime alla cloaca degli operai veggonsi segnate con carbone le seguenti parole [sottolineate, foglio 26]: “Morte a Vittorio Emanuele, il suo Regno è infame, la dinastia Savoja muoja per ora e per sempre” (accanto, un’altra scritta recitava: “Viva il governo de’ preti e duri sempre in Italia il governo Papale”).
La relazione si conclude riportando che dalla “voce pubblica si erano dati per estinti i capi ed autori dei disordini Fabbricini e Marino, feriti D’Amato Vincenzo di Resina, Giorgio Martucci di San Giorgio a Cremano, Giuseppe Farino, Pietro Canini, Ferdinando Russo di San Giovanni a Teduccio e Giacomo Marino. I feriti sono stati immediatamente spediti all’Ospedale dei Pellegrini ed i due estinti giacciono nello stabilimento, in attesa del giudice di Barra”.
Questa la fredda (e ovviamente poco obiettiva) relazione ufficiale nella versione “governativa”.
Sul foglio 24 è trascritto invece l’elenco completo dei morti (che secondo alcune fonti arrivarono addirittura a 9) e dei feriti coinvolti negli incidenti: “Luigi Fabbricini-morto- Aniello Marino-morto-, Domenico Del Grosso-morto ai Pellegrini- Aniello Olivieri-morto successivamente, Aniello De Luca, Giuseppe Caliberti, Domenico Citara, Leopoldo Alti, Alfonso Miranda, Salvatore Calamazzo, Mariano Castiglione, Antonio Coppola, Ferdinando Lotti, Vincenzo Simonetti-feriti”.
Sono questi i nomi dei primi martiri della storia operaia italiana.
Altre fonti e altre testimonianze, comunque, vengono fuori nonostante il regime poliziesco piemontese.
I giornali ufficiali, come tutti i giornali “ufficiali” ignorano colpevolmente il fatto o minimizzano.
Uniche versioni contrastanti quelle di due giornali minori: “Il Pensiero” e “La Campana”.
Questo il racconto dei fatti del Pensiero di domenica 7 agosto: “Giovedì Napoli era gettata nello squallore: un suo quartiere era bagnato di sangue cittadino, 11 innocenti venivano trapassati dal ferro italiano; la città si scuote, si commuove, maledice ai carnefici della patria e i giornali di Napoli, tranne pochissime onorevoli eccezioni, tacciono vergognosamente o se parlano lo fanno con lo scopo infernale di travisare i fatti, di metterli sotto un punto di vista più benigno […] onde diminuire le colpe di un governo svergognato. I giornali del governo avevano scritto che si tirò sugli operai in conseguenza di grida sediziose e ciò è un mendacio”.
Il “Pensiero” riporta allora la relazione di un uomo dello stesso governo e successivamente identificato come lo scrivano contabile Antonino Campanile: “Verso le tre e mezzo una Compagnia di bersaglieri, senza intimazione veruna e come per ispirazione satanica, obbedienti ad un segnale di trombe col fuoco e con le baionette li hanno caricati…al massacro pose fine il coraggioso intervento del vicedirettore di Pietrarsa, il capitano Federico Ferrero che, indossato il berretto di ufficiale, si mise tra bersaglieri e operai… ma restò un mucchio di nove corpi stesi a terra e due esanimi del tutto…”.
Il piccolo giornale “La Campana del Popolo” pubblica addirittura, l’8 agosto, la “relazione cerusica”, avendo una redazione vicina agli Ospedali dei Pellegrini (i cronisti erano accorsi al suono della campana dell’ospedale che segnalava a quei tempi l’arrivo dei feriti).
Si parla inequivocabilmente di palle di fucile e di una strage “inumana”: tra i feriti (7 in pericolo di vita) c’era anche un ragazzo di 14 anni colpito come molti altri alle spalle (perché evidentemente in fuga); Domenico Citale riportava “ferite di punta e taglio passanti dalla regione superiore e dall’esterno della coscia all’interno, la ferita lunga un pollice larga un mezzo; Olivieri era invece già morto “per palle di fucile al petto”; Del Grosso aveva riportato ben sette ferite in parti vitali del corpo a dimostrazione di un accanimento assassino (Relazione dell’Arciconfraternita ed Ospedale della Santissima Trinità dei Pellegrini e dei Convalescenti, Napoli 9 agosto 1863).
Altro che bersaglieri provocati dagli operai e operai (disarmati) che si spingono sulle baionette…
Da sottolineare la presenza in queste carte di un personaggio ancora oggi celebrato con piazze e strade a lui intitolate: il famoso sindaco Nicola Amore, questore durante i fatti di Pietrarsa.
“Colpa di Bozza e dei filoborbonici”, “fatali e irresistibili circostanze”: definisce così il massacro il questore Nicola Amore in una relazione al prefetto cercando nello stesso tempo di corrompere e di minacciare inutilmente il funzionario Antonino Campanile, testimone loquace e scomodo, sottoposto a procedimento disciplinare e poi destituito dopo le sue dichiarazioni ai giornali (fogli 31-37).
Qualche giorno dopo il massacro il capo contabile Zimmermann scrive per conto di Bozza al questore per ottenere la riapertura dello stabilimento: “un bisogno molto sentito di ordine pubblico”; gli chiede pertanto di mantenere le promesse e di provvedere al pagamento delle giornate di sciopero, con un tipico “intervento riparatore”. Segue poi una fase in cui si cercò di marginalizzare e minimizzare l’episodio, dialettizzando e criminalizzando quelli che venivano definiti pochi “provocatori” e “mestatori borbonici”, “elementi di disordine da eliminare” per consentire il ritorno alla normalità (fogli 41 r.v., 48 r.v.).
Gli operai, sempre più isolati, organizzano una efficace forma di propaganda facendo diverse copie di un quadro con l’illustrazione dei fatti “portandolo in giro sotto pretesto di raccogliere denaro per le vedove, per i feriti e per i funerali delle vittime” (la Polizia cercherà di sequestrarne tutte le copie per diversi giorni) (foglio 48 r.v.).
Il 13 ottobre i proprietari licenziano 262 operai perché “il governo col nuovo contratto per nulla ha considerato la sorte degli operai che rimarranno senza lavoro” (foglio 66).
Dopo inutili interventi e finti interessamenti il governo ridurrà le commesse di Pietrarsa decretandone praticamente la fine. Da pochi anni quella che era stata la più grande fabbrica metalmeccanica italiana, simbolo di attività e di produttività fino al 1860, è diventata un museo ferroviario.
Un piccolo e dimenticato monumento ricorda Domenico Del Grosso, Aniello Marino, Luigi Fabbricini e Aniello Olivieri, napoletani, morti per difendere il proprio lavoro.
(G. De Crescenzo: ricerche aggiornate in G. De Crescenzo, Noi, i neoborbonici, 2016).