Il mito dei Borbone e l’ennesimo inutile tentativo di smantellare le tesi dei neoborbonici, riconoscendo però i loro grandi successi.
È stato pubblicato l’ennesimo libro sui neoborbonici ma… senza i neoborbonici: “Il mito dei Borbone” del prof. Andrea Mammone (docente a Londra, negli States e a La Sapienza). In premessa dobbiamo ringraziare l’autore per l’importanza attribuita ai neoborbonici al centro delle circa 200 pagine del testo e capaci, ormai, di “dialogare con la politica”, di influenzare media, enti, istituzioni, scuole e accademie (al punto da costringerle -aggiungiamo noi- a scrivere tanti libri e articoli o ad organizzare tanti convegni pure se con i neoborbonici “in contumacia”). Siamo diventati, allora, con il nostro “appeal” trasversale, “legittimi e importanti attori culturali e portatori di istanze politiche locali”.
In pratica, però, l’autore fa quello che hanno fatto già altri autori per smentire le tesi neoborboniche: ha analizzato soprattutto dal web una serie di post, di articoli e di interviste in una selezione funzionale a dimostrare le proprie tesi precostituite ed è una scelta ancora più strana visto che Mammone è uno storico e non un sociologo e neanche un semplice giornalista (schema simile anche per diverse citazioni relative a Pino Aprile e Gigi Di Fiore). “Tesismo” è la felice definizione di un collega accademico dell’autore, Luigi De Matteo: mi innamoro di una tesi e la porto avanti a prescindere da quello che analizzo o potrei analizzare. Nel caso in questione, tra l’altro, Mammone fa uno specifico e continuo riferimento al Movimento Neoborbonico e al sottoscritto ma essendo io ancora in vita (anche se con qualche acciacco) avrebbe potuto chiedermi approfondimenti o suggerimenti bibliografici e non lo ha fatto. Cita, infatti, molti miei post ma nessuno dei miei 15 libri e le tante fonti (soprattutto archivistiche) utilizzate cadendo nell’errore che attribuisce ai neoborbonici ai quali “rimprovera” di non usare fonti.
Diverse, però, le “stranezze” con diversi passaggi che suscitano involontariamente pure qualche sorriso e qualche risata. Così, nelle conclusioni, l’autore, di fatto, incolpa i neoborbonici di non aver risolto la questione meridionale, di non aver costituito “un argine alla globalizzazione, all’immigrazione, alla crisi economica o alla riduzione della spesa pubblica” e, cosa ancora più grave, “i neoborbonici non porteranno mai a miracoli” (e qui i sorrisi diventano risate anche per la disillusione di tanti di noi che erano convinti che i neoborbonici potessero effettuare miracoli e qualcuno li aveva già visti armeggiare con pane, pesci e vino).
Così Mammone “rimprovera” ai neoborbonici i loro “miti” (la ricchezza delle Due Sicilie, i saccheggi, Mongiana o Gaeta) ma poi cade lui stesso negli abusatissimi “miti” risorgimentali dedicando molte pagine alla rivoluzione del 1799 e ai semi della libertà che diventarono poi unità italiana (dimenticando, però, gli oltre 60.000 meridionali massacrati da francesi e giacobini) o ai moti del 1848 (dimenticando che erano etero-diretti e che lo stesso Croce ringraziò i Borbone per aver difeso la Sicilia e il Sud dalle “mire inglesi”). Sostiene anche che quei moti furono la dimostrazione di un dissenso popolare e diffuso contro i Borbone dimenticando che si trattava (se pensiamo magari ai famosi esuli napoletani a Torino) di un centinaio di persone circa su una popolazione di oltre 9 milioni di persone.
Così un volantino Compra Sud da lui trovato su Facebook dopo l’autonomia differenziata per lui non è tanto credibile perché pubblicato da un militante di Nola (e Nola fu sede dei moti del 1820!)…
Così i neoborbonici “travisano la complessità della storia” ma ci chiediamo quale complessità ci possa essere nelle favolette che ancora si raccontano da 160 anni nelle scuole e nelle accademie magari su Garibaldi&garibaldini o magari sulle solite e abusate affermazioni di Gladstone (citate nel libro ma “smantellate” da recenti e ottime ricerche di John Davis).
Così Mongiana non era molto all’avanguardia ma intanto fino a quando c’erano i Borbone occupava, indotto incluso, migliaia di operai e dopo fu chiusa. Intanto si dilunga proprio sul “mito neoborbonico” di Mongiana ma neanche cita Pietrarsa con i suoi primati occupazionali e il massacro degli operai che protestavano per aver perso il lavoro dopo il 1860.
Così dedica molte pagine all’arretratezza della Calabria ma poi cita Giustino Fortunato che denuncia l’arretratezza calabrese mezzo secolo dopo che i Borbone erano andati via e glissa sull’arretratezza attuale e sulle colpe dei governi di questi 160 anni capaci di far diventare la Calabria una delle regioni più povere in Europa. E a proposito di Calabria e Sud arriva a citare una piccola rivista (Bruzio, 1864) con passaggi dall’amaro e inquietante sapore lombrosiano visto che si parla di una terra segnata “a inerzia e ignoranza” e non da una “cultura industriale”.
Ammesso, poi, che l’Italia fosse “tutta povera” nel confronto con gli altri stati europei, a noi non interessano le gare con gli altri paesi ma interessano i dati relativi agli indici di industrializzazione dell’Italia preunitaria e non per “tornare indietro nel tempo” ma per capire cosa è stato fatto o non è stato fatto per creare (e non risolvere) la questione meridionale. Dando un occhio ai dati archivistici (Archivio di Stato di Napoli, in particolare i fondi Ministero Agricoltura Industria e Commercio e Ministero Finanze) o ai recenti studi, tra gli altri, di Fenoaltea, Ciccarelli, Tanzi, Daniele o Malanima (non citati neanche in bibliografia) avrebbe scoperto che i numeri degli operai al Sud erano superiori rispetto a quelli del Centro-Nord e che, premesso che neanche lì il territorio era “omogeneo”, gli indici di industrializzazione in molte regioni del Sud erano pari o superiori a quelli del resto dell’Italia (Calabria inclusa con 0.69%, Catanzaro 0.78; Campania 1.01, Napoli 1.44 e Torino 1.41 nel 1871, 10 anni dopo l’inizio dello smantellamento meridionale). Stesso schema anche per i redditi (medi) o il PIL.
Così l’autore parte dalla solita premessa-accusa che da anni caratterizza tutti gli autori anti-neoborbonici e che si sintetizza in due parole: “vittimismo e autoassoluzione”. Il problema è che da oltre 160 anni le classi dirigenti meridionali si auto-accusano e, anzi, accusano gli stessi meridionali per i loro diritti mancati e la linea è (per i nordisti come per loro): “hanno/avete/abbiamo meno diritti perché siamo stati sempre arretrati o meritiamo meno diritti”. Il problema è che da 160 anni non abbiamo mai avuto classi dirigenti neoborboniche o in grado di rappresentare veramente e concretamente il Sud, con politici e intellettuali magari impegnati a difendere i loro interessi personali e non la loro gente ed è semplicistica la tesi “sono i meridionali a votare i politici che non li difendono” perché dal 1860 non abbiamo mai avuto alternative vere in un sistema duale in cui una parte del paese produce e l’altra deve consumare.
Mammone evita anche di approfondire un aspetto fondamentale della questione meridionale: la sua drammatica continuità dal 1860 ad oggi, aspetto che ha spinto i neoborbonici a diventare (provocatoriamente) neoborbonici andando alle radici/origini della questione.
E così Mammone teme l’ascesa dei neoborbonici perché farebbero arretrare “culturalmente ed economicamente il Sud”. Quindi Mammone teme chi contesta l’eroismo di Garibaldi ma non chi (come la Lega Nord e i suoi complici più o meno plateali dell’ormai famoso “partito unico del Nord”) proclama e ottiene secessioni.
Così il Risorgimento fu un successo e “un avanzamento civico e sociale anche per i meridionali” ma non sappiamo se si riferisca a quelli massacrati come briganti (e mai citati nel libro) o a quelli sui ponti delle navi dirette verso le Americhe come emigranti (mai citati nel libro), in due fenomeni che in quelle dimensioni non si erano mai verificati nella storia italiana.
Così l’autore ammette che i neoborbonici hanno avuto successo anche perché il Sud è stato dimenticato ma non ammette che è stato dimenticato (dati alla mano) da quando è nata l’Italia. Così teme ulteriori successi con l’autonomia differenziata ma non teme chi quella differenziazione di diritti l’ha cercata e ottenuta e, soprattutto, attacca le reazioni neoborboniche a tutto questo ma non indica quali reazioni alternative dovremmo avviare.
Registriamo anche qualche “errore” quando, a proposito del Napoli-centrismo (tesi ampiamente confutata dal suo collega De Matteo), cita Francesco II e il suo discorso finalizzato a “difendere il nome napoletano” (Francesco II pensava, ovviamente, non alla città ma alla nazione) o quando afferma che l’unico romanzo di Alianello diventato sceneggiato televisivo fu “L’alfiere” (dimenticando il bellissimo e famoso romanzo “L’eredità della priora”).
Così, infine, “servirebbe più Risorgimento e meno secessionismo sudista e nordista” e continua a metterci sullo stesso piano di chi, a differenza nostra, la politica l’ha condizionata e la condiziona in maniera devastante da decenni e restiamo in attesa di un prossimo libro del prof. Mammone sul “mito della Padania”.
La soluzione? Per Mammone “serve una memoria collettiva del Risorgimento”, una “memoria dal basso e il lavoro dello storico è più che mai attuale”: qui siamo davvero perplessi sia perché per fare tutto questo gli accademici e la cultura “ufficiale” hanno avuto 160 anni e tutti i mezzi (università, case editrici, media) in una sorta di sostanziale monopolio e, evidentemente, devono registrare il fallimento delle proprie posizioni e della loro difesa del Sud, sia perché Mammone cade un’altra volta nell’errore attribuito ai neoborbonici e rivendica l’importanza di un “uso pubblico della storia” (e noi restiamo sempre in attesa di conoscere l’indirizzo dell’ufficio preposto a rilasciare le patenti per un uso pubblico buono o cattivo della storia).
Chiudiamo questa analisi riportando due passi significativi.
“Queste dinamiche potrebbero lasciare nel Sud un grande spazio alla nascita di formazioni politiche a base localistica o personalistica… che facciano della difesa degli interessi del Sud una delle loro bandiere” (e qui noi aggiungiamo due parole: “finalmente e magari”!).
“L’immobilismo nazionale verso il Meridione, con i rischi di aumento della povertà e di crescente emigrazione giovanile, potrebbe favorire ulteriormente i controstorici nostalgici… Il problema non è infatti solo storiografico. I neoborbonici non sono nemmeno interessati a un confronto serio con la storiografia. Il loro attivismo mira a ridisegnare un’identità e cambiare il corso della storia”.
E qui, pur con qualche riserva sul confronto che fa con la Brexit inglese e garantendo al prof che siamo a sua disposizione per qualsiasi tipo di incontro/dibattito, ripetiamo ancora quelle due parole: “finalmente e magari” e altro che “vittimismo” se cambiando il “corso della storia” magari risolveremo la questione meridionale e, dopo 160 anni, magari offriremo ai nostri giovani il diritto di non emigrare e il diritto ad un futuro dignitoso nella loro terra.
Gennaro De Crescenzo
Nota
Per i dettagli dei riferimenti archivistici e bibliografici v. Gennaro De Crescenzo, Perché siamo neoborbonici, Milano, 2016 e I peggiori 150 anni della nostra storia, Napoli, 2011.