Quando l’artista Pasquale Nero Galante mi ha chiesto i nomi di 150 martiri, autori della resistenza armata contro l’altra civiltà venuta per rapinare, devastare e sottomettere, non pensavo che arrivasse a tanto: con il suo dipinto riesce a trasmette un coacervo di sensazioni sulle quali domina assoluta e tremenda l’angoscia.
Leggere i nomi dei nostri eroi, seminascosti dal grigiore dell’oblio e dal siero del sangue che a fiumi bagnò la nostra antica Terra, fa male, stringe la gola, incute timore e fa sentire forte la necessità di abbassare lo sguardo in segno di rispetto per quello che hanno subito e per quello che sono riusciti a dare con slancio in difesa della nostra civiltà, in difesa della nostra dignità.
Non sono un critico d’arte, ma quel quadro per me non ha prezzo perché non rappresenta il dolore, è il dolore, un dolore intenso, struggente che viene trasmesso magistralmente attraverso la pittura che avvolge i nomi di una tragedia infinita ed assurda, una tragedia tuttora negata dalla storia.
Cap. Alessandro Romano
“Centocinquanta per Centocinquanta” (2011)
Tecnica mista su tela
cm. 150 x 150
C’è, nell’originalissimo lavoro che Pasquale Nero Galante ha realizzato per l’evento, un che di smaccatamente provocatorio, la cui corretta interpretazione, tuttavia, può e necessita di essere chiarificata attraverso l’analisi e la rilettura acritica di talune vicende storiche del mezzogiorno preunitario, volutamente neglette dalle fonti o solo parzialmente – e talvolta in maniera del tutto inattendibile e menzognera – confluite nei testi scolastici, oscurate, alterate, private dello spirito di zolla – e non sovversivo, né insurrezionalista – della rivolta all’ennesimo atto di asservimento (retaggio della società feudale), instillando nei neo italiani la persuasione e l’errato convincimento che si era trattato – per i piemontesi colonizzatori in risalita – di un necessario spargimento di sangue volto a reprimere il costume del brigantaggio, in certi territori del Sud, e non di reazioni a moti legittimi di resistenza, generati dalla necessità di difendere la propria identità, di riscattare i propri patimenti, la propria cultura contadina, da secoli sulla via di affrancarsi dal giogo di una certa aristocrazia agraria (Giuseppe Capitaneo di Modugno, Francesco Palmieri di Monopoli, Francesco Saverio Caravita duca di Toritto, Cesare de Ilderis di Bitonto, Luca Pomarici Santomasi di Gravina, Nicola Miani di Polignano).
L’opera di Galante omaggia, così – nelle tonalità strinate delle terre d’ombra sulle quali si posa un dripping convulso e lacrimatorio, rievocante il greve contributo di sangue degli insorti – centocinquanta uomini e donne (capozzielli, briganti e brigantesse, partigiani alla macchia, vivandiere, semplici reazionari, soldati delle truppe borboniche, addirittura la Borbone Maria Sofia d’Asburgo, eroina di Gaeta) che tra gli innumerevoli altri offrirono la loro vita alla causa del Meridione, subendo il Risorgimento. Nomi autentici – taluni fantasiosi ma certo non frutto di fantasia – nati da ricerche di archivio, tra i quali anche Carmine Crocco, detto Donatello, da Rionero, leggendario esarca dei briganti del vulture-melfese, dalla antonomastica vita avventurosa.
Il mondo intravisto da ogni pittore, analogamente a quello del poeta, è “in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”, e Galante – straordinario interprete del nostro tempo – non cerca inutili consolazioni divagatorie in sortite marginali, ma a differenza del poeta sembra conoscere le vie d’uscita risolutive perché possiede la difficile virtù e la capacità di cercarle. Ed il più difficile coraggio di perseguirle.
Massimo Rossi Ruben