A Pizzo Calabro

le celebrazioni dei massacratori dei Calabresi
Siamo l’unico paese al mondo che da oltre 150 anni esalta sistematicamente chi, invasore straniero, ha massacrato il popolo inerme. Incredibile come la menzogna storica, nonostante la dilagante verità, riesca ancora a generare eventi con i soldi pubblici. 
Purtroppo è l’ignoranza della maggior parte dei politici che fa da padrona, mentre tutto il resto si allinea stancamente ad una consuetudine aberrante che stupra senza vergogna la memoria storica e la dignità della nostra Gente.

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Massacri compiuti dall’esercito francese 
(incisione Goya)
Le manifestazioni previste a Pizzo Calabro dall’11 ottobre per celebrare Gioacchino Murat, con il patrocinio e il finanziamento (pubblico) del Comune di Pizzo, dimostrano ancora una volta la mancanza di conoscenza e di rispetto della memoria storica calabrese e meridionale. 
Si celebrano, infatti, con convegni e iniziative  folcloristiche, Gioacchino Murat e la sua tragica morte senza approfondire i temi trattati. L’esaltazione di Murat (il cui merito principale era quello di essere il cognato di Napoleone oltre che il riferimento principale della massoneria del tempo) è del tutto fuori luogo se solo si pensa che i francesi, nel 1799 come nel 1806, massacrarono decine di migliaia di calabresi e di meridionali che si ribellarono (“briganti” o “insorgenti”) a quella invasione con coraggio e fedeltà verso i valori cristiani rappresentati dalla dinastia borbonica.  Innumerevoli le fucilazioni senza processo e le devastazioni e i saccheggi di intere città, così come si sarebbe verificato anche durante la successiva unificazione italiana…
Da un lato gli invasori francesi con i pochi collaborazionisti locali, dall’altro chi difendeva case, terre e famiglie e che in qualsiasi paese del mondo sarebbe celebrato come un eroe (da Amantea a Soveria, da Longobucco a Maida fino a Lauria con una città intera devastata e massacrata).
Di fronte ad una storiografia sempre più documentata e diffusa sulla storia del Sud preunitario, non si può continuare a conservare  quella subalternità immotivata verso le dinastie straniere prima francesi e poi sabaude che la storiografia ufficiale ha colpevolmente radicato nella nostra cultura. 
Il Movimento Neoborbonico e il “Parlamento delle Due Sicilie” propongono al Comune di Pizzo una pubblica sfida/dibattito (con eventuali proiezioni -gratuite- audio/video e di immagini e documenti) sulla storia dei Borbone, dei napoleonidi, delle Calabrie e del Sud.  

Ufficio Stampa
347 8492762

www.neoborbonici.it
www.parlamentoduesicilie.it
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I “liberatori” francesi: 
devastazioni, massacri, decapitazioni e oltre sedicimila condanne a morte.
Qualche testimonianza… 
“Passammo la notte sulle alture, dopo aver stabilito una linea di fuoco per dare l’impressione di essere una forza assai superiore. Per lungo tempo nella stretta valle si udì un grande trambusto. Urla di spavento risuonavano da ogni parte. Senza dubbio, gli abitanti, temendo di vederci discendere durante la notte per mettere a ferro e a fuoco il paese, si affrettavano a porre in salvo i loro beni e se stessi. All’alba alcuni distaccamenti occuparono la sommità di tutte le montagne circostanti. Dopo di che duecento uomini scesero nel villaggio… Il villaggio dove si erano rifugiati fu circondato senza il minimo rumore e, sul fare del giorno, marciammo di fronte per attaccarli… Contemporaneamente da ogni parte si gridò «All’assalto!

All’assalto!»… Questo sventurato villaggio, saccheggiato e incendiato, subì gli inevitabili orrori che seguono ogni attacco. Il curato, un gran numero di donne, di fanciulli e di vecchi fortunatamente si rifugiarono in una chiesa, dove alcuni ufficiali si recarono per proteggere questo asilo dalla brutalità dei soldati. In questo combattimento subimmo perdite considerevoli; gli insorti, sterminati quasi completamente, lasciarono sul campo più di duecento morti. Molti di loro persero la vita cadendo dalle scarpate a strapiombo, da dove cercavano di mettersi in salvo” [Cfr. D. de Tavel, Lettere dalla Calabria, pp. 103 e sgg.Soveria Mannelli 1996 – Rubettino Editore]
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RESISTENZA CALABRESE ALL’INVASIONE FRANCESE DEL 1806

Il 14 febbraio 1806 le truppe francesi occuparono Napoli e sul trono s’insediò il fratello di Napol
eone, Giuseppe Bonaparte. Trovò in Calabria le prime e più irriducibili resistenze. La regione acquistò un’immensa notorietà e venne paragonata in tutta Europa alla Vandea, che si era opposta strenuamente all’avanzata della Rivoluzione. Si era da poco insediato il nuovo monarca che subito, insopprimibile, scoppiò una rivolta, che non accennò a placarsi fino alla fine della dominazione francese.
La scintilla scoccò a Soveria Mannelli, un villaggio della presila. Era il 22 marzo, secondo giorno di primavera e, secondo la tradizione, il francese che comandava il drappello che presidiava il borgo insidiò una bella e giovane donna del luogo. Alle grida della donna, accorsero i paesani guidati da un contadino, Carmine Caligiuri, e i quattordici francesi del drappello vennero massacrati. Da Soveria, l’insurrezione si diffuse come un fiume in piena in tutti i comuni vicini. A nulla servì che i francesi intervenissero in modo spietato, bruciando i villaggi e impiccando i rivoltosi. .A Maida il 4 aprile i Francesi furono sconfitti dai rivoltosi, sostenuti da truppe inglesi.
Il 31 luglio vi fu la proclamazione dello stato di guerra nella Calabria. Si tratta di uno dei pochi provvedimenti formali nella storia dell’umanità, per legittimare le azioni di ferocia inaudita che i Francesi inflissero alle popolazioni della Calabria.
Gli occupanti reagivano così anche perché, abituati a trionfare in tutta l’Europa, non potevano mai immaginare di incontrare una resistenza così tenace proprio in questa sperduta regione. Forse soltanto nella Galizia, ci fu qualcosa di simile, ma mentre in Spagna l’opposizione alla conquista francese è diventata una pagina luminosa della storia nazionale, da noi nei libri di scuola non se ne parla neppure. Nonostante questo, la Calabria restò in guerra fino alla fine della dominazione francese, sebbene nel 1808 diventasse re Gioacchino Murat.
I Francesi abolirono per legge la feudalità, come se un’istituzione secolare potesse essere eliminata per decreto; provvidero alla ridefinizione delle circoscrizioni comunali, aumentandone in modo considerevole il numero; migliorarono sensibilmente il più importante asse viario del tempo, che era stato in precedenza tracciato dai Borbone e che era la strada delle Calabrie (attuale strada statale 19); trasferirono la capitale della Calabria Ulteriore da Catanzaro a Monteleone. E poi misero in vendita i residui beni ecclesiastici.
E con questi provvedimenti, e simili argomenti, unitamente alla guerriglia che senza soste insanguinò la regione per l’intero decennio, la Calabria, secondo qualche storico, « usciva dal secolare isolamento».
da: http://www.soveratoweb.it/storiacalabria.htm
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DUE BRIGANTI CALABRESI DEL 1806 POCO CONOSCIUTI
Paolo Mancuso detto PARAFANTE, nacque a Serra di Scigliano nel 1783. Partecipò all’impresa del cardinale Ruffo e svolse diverse azioni per conto degli inglesi, brigante temutissimo era tra i più potenti della Calabria insieme a Fradiavolo, Panedigrano, Francatrippa. Un resoconto dettagliato delle sue gesta si può leggere nei detti documenti: Note Essenziali riportati da Mozzillo, “Cronache …. op. cit., pp- 1079-80 e 1091-1110 Il primo afferma che Parafante fu ucciso il 13 febbraio 1811 nel bosco di Migliuso dagli uomini dell’aiutante generale Iannelli: il secondo, il 14 nel bosco di Camello, vicino a Feroleto, dopo un violento scontro. Il suo corpo fu esposto in una gabbia di ferro a Scigliano. La sua testa fu portata per molti paesi, poi fu portata dal signor tenente generale Manhès in Cosenza, come pure la testa degli altri compagni. E questi le fecero a vari pezzi, e distribuiti per vari luoghi” . Questo racconto è confermato anche da L. M. GRECO, op. cit., II, p. 398, che ci informa che un fratello di Parafante era prete il quale finì impiccato a Nicastro dai francesi insieme ad una sorella, mentre gli altri quattro fratelli di Parafante erano di ” d’indole brava.”
fonte da www.scigliano.altervista.org
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AMANTEA: 
CONTADINI, NOBILI E SOLDATI BORBONICI SI OPPOSERO UNITI ALL’ ESERCITO NAPOLEONICO INVASORE. 

Il 15 dicembre 1805 Napoleone ordina all’esercito francese di invadere il Regno delle Due Sicilie. Il comando è assunto dal generale Massena, che muove con tre colonne per un totale di 37000 uomini. Il 12 febbraio 1806 si arrende la fortezza di Capua, il giorno successivo Pescara, il 14 le avanguardie francesi entrano nella capitale, da cui il Re era partito per la Sicilia sin dal 23 gennaio. Tre giorni dopo Massena invia distaccamenti in Puglia e Calabria, n sestultima regione il generale Regnier con 10000 uomini il 18 marzo batte i napoletani guidati da Ruggiero Damas a S. Lorenzo la Padula ed a Campotenese. Il giorno dopo i resti dell’esercito borbonico, circa 12000 soldati, insieme al loro comandante si imbarcano per la Sicilia. Tra il 29 ed il 30 marzo Napoleone dichiara decaduto Ferdinando IV, e nomina sovrano il fratello Giuseppe: tutto il regno di Napoli è in mani nemiche, ad eccezione di Civitella del Tronto, Gaeta e, nelle Calabrie, Maratea, Amantea e Scilla. Amantea si è preparata alla resistenza sin dai primi giorni di marzo, favorita dalla posizione e dai luoghi, poiché ad ovest ed a est ripidi dirupi e valloni rendono facile la difesa e difficile l’assalto, a nord e a sud mura merlate e bastioni proteggono l’abitato; sempre a nord il torrente Catecastro lambisce il paese, e la vicinanza del mare consente, pur tra rocce scoscese e sentieri impervi, un possibile rifornimento. La guarnigione, al comando del tenente colonnello Ridolfo Mirabelli, è stata rifornita di quanto occorrente via mare, mentre quattro cannoni da 18 libbre costituiscono l’artiglieria per la difesa. Per un po’ il nemico si accontenta solo di minacciare con attacchi sporadici, ma a novembre il generale Verdier invia tre battaglioni di fanteria, una compagnia di artiglieria, una di zappatori e dei dragoni per iniziare le operazioni di assedio. Nel mese di dicembre iniziano le ostilità e gli scontri, cui partecipano molti cittadini, guidati dal dott. Salvatori e dal frate Michele Ala. I francesi, dopo essere stati messi
in grosse difficoltà dai difensori, una volta ricevuti 800 uomini di rinforzo tentarono, in una notte del mese, un attacco dalla parte del mare. Li guida il capitano della gendarmeria Razzo, nativo di Amantea, che riesce a far superare loro la rampa di San Pantaleo, ed a farli giungere sulle mura del paese. Le sentinelle, che non si attendevano un attacco dalla parte più difficile, stanno per essere sopraffatte quando l’urlo di una donna, Elisabetta de Noto, dà l’allarme, seguito da rullo di tamburi che chiama i difensori alle mura ed il lampo di un mortaio, segnale del nemico per l’assalto, rende palese il pericolo. Dopo tre ore di battaglia i nemici sono respinti sotto una gragnola di colpi, lasciando sul terreno un centinaio di morti e quasi il doppio di feriti. La resistenza preoccupa Verdier per il formarsi di bande partigiane in tutta la Calabria, principalmente a San Lucido, Fiumefreddo e sopra Amantea, per cui ordina l’inizio dei lavori di assedio della cittadina affidandone il compito alla brigata di Peyri, formata da 4 battaglioni, 300 corsi, una compagnia di cannonieri, una di zappatori napoletani e quattro ufficiali ingegneri, Montemajor, Cosenz, Mac Donald, Romei: in tutto 3200 uomini. Il 2 gennaio 1807 si inizia a stringere d’assedio Amantea, pur se l’alfiere delle milizie provinciali, Raffaele Stocco, riesce ad entrare in paese con un centinaio di soldati, attraversando le linee nemiche. I francesi scelgono per l’attacco la zona meridionale di Palaporto, iniziando la costruzione delle piazzole per l’artiglieria. I risultati ottenuti con il cannoneggiamento sono più che modesti, mentre frequenti sono le sortite dei difensori: perciò si intensificano i lavori di scavo per la posa di mine, mentre si prosegue nel tiro giorno e notte, e si costruisce un ridotto quadrato sulla spiaggia per impedire i rifornimenti via mare ai napoletani. In città l’assedio comincia a farsi sentire con la mancanza di pane ed acqua, cui si cerca di sopperire con gravi pericoli. All’alba del 15 gennaio le compagnie granatieri e cacciatori del 52° fanteria vanno all’assalto delle mura indebolite dal bombardamento, ma sono costrette a ritirarsi per la tenace difesa degli assediati. Non resta ai francesi che proseguire con il cannoneggiamento e con lo scavo delle gallerie per le mine. Alla fine il lavoro è compiuto nella notte del 29: un ultimo tentativo di convincere alla resa i napoletani non sortisce effetti positivi, nonostante gli uffici del colonnello della gendarmeria Luigi D’Amato, parente, amico e compagno d’armi del Mirabelli. I due calabresi che militano in campi avversi si incontrano fuori le mura, ma i ragionamenti e le promesse del D’Amato non ottengono l’effetto sperato; si affida allora a Montemajorla preparazione della mina che dovrà aprire una breccia nelle mura. Alle due pomeridiane del 6 febbraio si fanno brillare le cariche. Tutta la facciata del bastione vola in aria e poi rovina nel fossato per una lunghezza di 60 piedi e per una larghezza di 50, formando una comoda rampa di accesso alla città. I francesi si lanciano all’assalto alla baionetta, ma sono più lesti i difensori a ricacciarli indietro.
Due altri tentativi nella notte sono respinti con gravi perdite, tra cui il colonnello Montemajor, ferito nell’ultimo attacco. All’alba del 7 febbraio la resistenza può durare solo per un altro giorno, perciò si incarica di trattare la resa il tenente Trigona, che ottiene per la guarnigione l’autorizzazione a raggiungere l’armata borbonica in Sicilia. Ha così termine l’assedio di Amantea, durato ben 10 mesi, episodio misconosciuto della valorosa lotta sostenuta dai calabresi contro gli occupanti francesi. La resistenza armata della popolazione fu poi stroncata dallo straniero con metodi di inaudita ferocia e brutalità, paragonabili a quelli usati dai piemontesi negli anni 1861-67; ma di quelli e di questi la storia ufficiale tace, bollando quanti difesero la propria terra dall’invasore come “Briganti”. E’ ora finalmente di attribuire anche a questi valorosi la qualifica di Partigiani!

(Gaetano Fiorentino: Il Sud quotidiano del 2/8/1997)

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