“BORBONICO”
di
Vittorio Messori
“Le cose della vita”
ed. Paoline, Milano 1995, p. 304.
“Borbonico”, si sa, è un termine ingiurioso: è sinonimo di oscurantismo, inefficienza, ottusità, malaffare. Questi significati sono recenti e sono propri solo della lingua italiana. In Spagna, ad esempio, la gente di ogni convinzione politica sembra soddisfatta del suo Juan Carlos, che è un re borbonico, discendente dalla antica, ramificata dinastia che prese origine da modesti feudatari del castello di Bourbon. Proprio in Francia, una delle glorie nazionali è un altro Borbone, quel Luigi XIV significativamente chiamato “il re Sole”; e sono in molti ancora a piangere la fine dell’ultimo della dinastia, Luigi XVI, il sovrano ghigliottinato, che, pure, ebbe il solo merito di riscattare con il dignitoso coraggio in morte le fiacchezze e gli errori della vita.
Se da noi – e da noi soltanto – “borbonico” suona male, il motivo va cercato nella propaganda risorgimentale che doveva giustificare l’aggressione contro il Regno delle Due Sicilie, retto appunto da un ramo dei Borbone, quello di Napoli. Sia l’ala “rivoluzionaria” (quella di Garibaldi e Mazzini), sia quella “moderata”, “liberale”, alla Cavour, alla d’Azeglio, per una volta unite, crearono attorno ai sovrani partenopei una delle numerose “leggende nere” che ancora infestano tanti manuali scolastici e che popolano l’immaginario popolare. Anche qui, la revisione storica è da tempo all’opera, ma i suoi risultati non sembrano essere giunti ai molti – anche giornalisti – che continuano a dire “borbonico”, così come scrivono “medievale”, per sinonimo di barbarie.
Qualche tempo fa, uno studioso meridionale, Michele Topa, ha pubblicato sul quotidiano di Napoli, “Il Mattino”, una serie di articoli frutto di non conformistiche ricerche. Quei saggi sono stati raccolti in un grosso volume dal titolo “Così finirono i Borbone di Napoli”, pubblicato dall’editore Fiorentino. Lo storico articola la sua ricerca soprattutto attorno agli ultimi due re, quelli sui quali si è scatenata la campagna di diffamazione gestita dai Savoia, usurpatori del loro regno. Al centro del libro, dunque, Ferdinando II, re delle Due Sicilie dal 1830 al 1859 (il “re bomba”, secondo la leggenda ingiuriosa creata anche dalla massoneria inglese) e il figlio Francesco II, spodestato da garibaldini e sabaudi nel 1860, dopo un solo anno di regno e aggredito e diffamato anche per avere rifiutato – lui, cattolicissimo – l’offerta del Piemonte di spartirsi lo Stato Pontificio.
Non certo per pigrizia, ma perché non sapremmo dir meglio, riportiamo qui parte della recensione al volume di Michele Topa apparsa su un numero di questo giugno della “Civiltà Cattolica” (oggi, tutt’altro che “reazionaria”), a firma di padre S. Discepolo.
Ecco, dunque: «Molti manuali di storia presentano Ferdinando II come un mostro, un boia incoronato, un tiranno senza freni, alla testa di un governo che era la negazione di Dio. Queste falsità furono orchestrate e diffuse da inglesi e piemontesi con fini machiavellici; ma poi furono sconfessate dagli stessi autori. Gladstone ritrattò, affermando che le sue lettere erano false e calunniose, che era stato raggirato e che “aveva scritto senza vedere”. Settembrini, autore di un infame libretto, confessò che fu “arma di guerra”. Ferdinando II, in realtà, secondo lo storico, fu un re onesto, intelligente, capace, galantuomo, profondamente amante del suo popolo. Il regno fu caratterizzato da benessere, fioritura culturale, artistica, commerciale, agricola e industriale. Poche le tasse, la terza flotta mercantile d’Europa, una delle più forti monete, il debito pubblico inesistente, l’emigrazione sconosciuta. Il miracolo economico del Sud Italia fu elogiato nel Parlamento inglese da lord Peel. L’industria era all’avanguardia, con il complesso siderurgico di Pietrarsa, che riforniva buona parte d’Europa, e il cui fatturato era dieci volte rispetto all’Ansaldo di Sampierdarena. Oltre al primo bacino di carenaggio d’Europa, Napoli ebbe la prima ferrovia d’Italia. 120 chilometri raggiunsero presto i 200 ed erano già pronti i progetti per estendere la ferrovia in tutto il regno. I prodotti come la pasta e i guanti erano esportati in tutto il mondo. Prima del crollo, il Regno delle Due Sicilie aveva il doppio della moneta di tutti gli Stati della Penisola messi insieme. Sono significative alcune cifre del primo censimento del Regno d’Italia: nel Nord, per 13 milioni di cittadini, c’erano 7.087 medici; nel Sud, per 9 milioni di abitanti, i medici erano 9.390. Nelle province rette da Napoli gli occupati nell’industria erano 1.189.582. In Piemonte e Liguria 345.563. In Lombardia 465.003».
Continua la sua sintesi del libro di Michele Topa il recensore della “Civiltà Cattolica”: «Certo, c’era il rovescio della medaglia: un governo paternalistico, una polizia – nella bassa forza – corrotta, una forte censura. Erano però le caratteristiche dei governi del tempo ed erano avvertire solo dai ceti intellettuali. Ferdinando Il, se è attaccabile sul piano strettamente politico, non lo è su quello morale. Le repressioni del 1848, così enfatizzate, sono da considerarsi moderate in confronto con quelle di altri Stati o con il modo con il quale l’Inghilterra represse i moti coloniali. Ferdinando II graziò moltissime persone per i reati politici e di 42 condanne a morte non ne fu eseguita nessuna».
Se così stavano le cose (e dati, cifre, documenti, starebbero a confermarlo) come mai il crollo del Regno del Sud davanti all’aggressione garibaldina? Continuiamo, allora, a trascrivere: «Causa prima della fine fu la prematura morte di Ferdinando Il. Suo figlio Francesco II, mite, dolce, cavalleresco, mal consigliato e tradito dai suoi collaboratori comprati dall’oro piemontese, si trovò a combattere non solo contro Garibaldi, ma contro Vittorio Emanuele II (suo cugino), Cavour, la Francia, l’Inghilterra. Lo sbarco dei Mille avvenne sotto la protezione della flotta inglese e, nella decisiva battaglia di Milazzo, Garibaldi aveva sull’esercito napoletano la supremazia di 5 a 1. Il tradimento, la corruzione e l’inettitudin
e dei generali portarono Garibaldi a Napoli. Ma nella battaglia sul Volturno i napoletani ebbero la meglio, a Caiazzo i garibaldini furono sconfitti, a Capua travolti. Il mito dell’infallibilità di Garibaldi fu infranto, a stento riuscì a salvare la vita…».
e dei generali portarono Garibaldi a Napoli. Ma nella battaglia sul Volturno i napoletani ebbero la meglio, a Caiazzo i garibaldini furono sconfitti, a Capua travolti. Il mito dell’infallibilità di Garibaldi fu infranto, a stento riuscì a salvare la vita…».
Ci permettiamo, poi, di rimandare pure a quanto scrivevamo al proposito, in una raccolta precedente, sui tre milioni di franchi oro versati in segreto ai capi dei Mille per comprare la resa dei borbonici (cfr. Pensare la storia, p. 258s). Ma che avvenne dopo? Ecco: «A Napoli, bastarono 62 giorni di dittatura garibaldina per distruggere le floride finanze e l’economia del Paese, che crollò industrialmente. Il disavanzo napoletano alla fine del 1860 era già salito a 10 milioni di ducati, nel 1861 a 20 milioni. Ben presto gli abitanti del Regno toccarono con mano quanto più duro fosse il nuovo regime. Molti divennero “briganti”. Per domarli, dovette intervenire un esercito di 120.000 uomini…».
Adesso, siamo avvertiti: prima di ingiuriare qualcosa a qualcuno definendoli “borbonici”, conviene informarsi meglio.