J.N. Schifano, autore di una splendida introduzione del nostro libro “Malaunità” ha pubblicato un grande articolo su Il Mattino di qualche giorno fa. “Jean Noël Schifano contro la MALAUNITA’ d’Italia. Tutto quello che Napoli ha dato all’Europa” (Il Mattino 1/7/11). Lo sapete, mio padre, nato tra lo zolfo, era siciliano, mia madre lionese, e io, radicato culturalmente e visceralmente a Napoli e alla sua civiltà trimillenaria, sono napoletano. Il nostro passato è la linfa della nostra identità. Dannazione a quelli che hanno voluto prosciugare quella linfa – e continuano a volerla inaridire con ignoranza, arroganza, paura dell’Altro. La storia ufficiale ha voluto lobotomizzarci dal 1860 e ad vitam aeternam, dopo averci coperto delle ceneri dell’obbrobrio e dell’infamia, dopo averci spogliato delle nostre ricchezze, sperando di seppellirci sotto la monnezza … Perché i piemontesi, impoveriti dalle guerre, le imposte ingiuste e le cattive gestioni, come nuovi viceré spagnoli arrivati con le galere vuote, consideravano ancora – e giustamente, viste le sue ricchezze – la nostra città capitale come l’inesauribile Potosi d’Europa. (…) Nel 1860-61 i Savoia, prima con il loro domestico dalla camicia rossa, il nizzardo Garibaldi – il quale non aveva sulle labbra che una sola parola davanti alla vecchia dinastia dalla croce bianca: “Ubbidisco!”, fino al momento in cui, non servendo più, lo fecero gambizzare da militari dalla coccarda tricolore (il primo gambizzato della storia d’Italia contemporanea: sarà la specialità -buon sangue non mente-, nella seconda metà del XX secolo, delle Brigate Rosse)- i Savoia dunque, quelli di Vittorio Emanuele II, di Cavour, aiutati dai due generali criminali di guerra Nino Bixio ed Enrico Cialdini, aiutati, per la spedizione dei mendicanti garibaldini, dal denaro della Franca Massoneria scozzese (gli Inglesi stavolta giocavano contro i Borboni per recuperare la loro zona d’influenza su tutto il sud Italia – e lo zolfo della sofferenza dei carusi e la piacevole esclusività del vino di Marsala), i Savoia fanno dunque man bassa delle ricchezze del Regno delle Due Sicilie. Più la menzogna storica è grossa, più viene ripetuta, più ha la possibilità di passare ai posteri. E, per quanto riguarda il rapporto Nord-Sud della pretesa Unità d’Italia, questa menzogna è esemplare. Nel 1860 il nord Italia, a causa delle guerre incessanti e della disastrosa amministrazione, era indebitato fino alla rovina. Nel 1860 le Due Sicilie (tutto il Sud, dalla Campania alla Sicilia), erano prospere, e d’una fiscalità (gli Angioini avevano spianato la strada qualche secolo prima) che riempiva le casse del regno senza svuotare le tasche dei napoletani e che gli invasori del nord (i rapporti scritti che ci sono giunti, e studi storici molto seri e documentati non mancano in proposito) dapprima ammirarono, prima di distruggerla con successivi saccheggi di banche, delocalizzazioni di fabbriche e cantieri navali (prime delocalizzazioni della storia: i cantieri di Castellammare spostati a Genova, la fabbricazione delle ferrovie da Pietrarsa, sotto il Vesuvio, verso le provinciali città del nord, Napoli, con i suoi 600.000 abitanti e la sua civiltà europea, che era l’unica capitale d’Italia, alla stregua di Parigi e Londra …) chiusura della Borsa, unica piazza borsistica che esistesse in Italia , fuga dei Rotschild la cui unica banca italiana era a Napoli … Dato che quest’anno 2011 si festeggia la ratifica (17 marzo 1861) dei 150 anni dell’Unità d’Italia, non si può capire niente di questo lutto unitario di più della metà di un paese e dello stato pietoso in cui si trovano oggi i due Stati dello Stivale, l’Italia grottesca e il silente Vaticano, non si può capire niente di questa disunità profonda, irrimediabile, accecante, mascherata sotto le fanfare degli storici ufficiali e stipendiati, se non si parte dall’anno del crimine unitario, eseguito a Napoli in modo del tutto ufficiale, sotto la sanguinosa ala della camorra. Eh sì, sono i Savoia dell’Unità d’Italia che hanno messo la camorra al potere. Il prefetto Liborio Romano, diventato subito viceministro dell’Interno, mise Salvatore De Crescenzo, capo supremo dell’organizzazione criminale, al comando della città con le sue truppe senza fede né legge. Principio di tutte le illegalità governative in Italia, fino ai giorni nostri in cui economia, crimine e politica non sono mai paralleli ma convergono sempre. Per vederci più chiaro, una piccola revisione dei conti, insomma, è necessaria. I fatti e le cifre parlano più di mille esercizi di stile. In piena espansione economica, Napoli possiede nel 1860 la prima flotta mercantile e la prima flotta militare d’Italia, la seconda al mondo, la più grande industria navale d’Italia coi suoi 2000 operai … Sotto il Vesuvio l’industria metallurgica (1050 operai) vede uscire il primo treno che funziona in Italia nel 1839… I primati, in tutti i campi (scienza, architettura, medicina – la più bassa mortalità infantile fino al 1860, la più alta qualche anno dopo -, prima cattedra di economia al mondo dal 1854, affidata al celebre Antonio Genovesi; 1835, primo istituto in Italia per i sordomuti; primati italiani anche il numero di orfanatrofi, ospizi, collegi, conservatori (primo teatro lirico al mondo, il San Carlo, 1737), strutture d’assistenza sanitaria gratuita (dal 1789) e di formazione; prima città d’Italia per numero di tipografie (113) e per numero di giornali e riviste; senza contare l’astronomia, la sismografia, l’illuminazione elettrica, le navi a vapore, e la più celebre accademia militare, la Nunziatella… Nel 1860 abbiamo a Napoli la più alta quotazione per le rendite su fondi statali, 120% alla borsa di Parigi; le imposte più basse d’Europa; la più grande quantità di lire-oro delle Banche Nazionali: sui 668 milioni di lire-oro che costituiscono il patrimonio di tutti gli Stati italiani messi insieme, 443 milioni appartengono al Regno delle Due Sicilie… Tutto è stato razziato dai Piemontesi. Le popolazioni schiacciate, con la volontà di ridurre a città-bonsai l’unica capitale d’Italia. Rovinare e tenere al guinzaglio con il contentino di una Cassa del Mezzogiorno, o di aiuti parsimoniosamente distribuiti, umiliare d’immondizia, esasperare Napoli e tutto il sud, tagliargli le sue lingue per standardizzarle alla lingua toscana, che diffondono i media dell’Escort-Cavaliere al potere nella sua Escort-Italia: corona, questa Italia, questo Berlusconi – che si paragona volentieri a Cavour e a Mussolini – risultato finale dei 150 anni di Malaunità. È in lingua napoletana che Tommaso d’Aquino, facendo tutte le sue prediche nella chiesa di San Domenico Maggiore (1273) in illo suo vulgari eloquio, nella sua lingua volgare, come volgare era il fiorentino di Dante diventato lingua berlusconiana; sempre in napoletano Gianbattista Basile scrisse nel XVII secolo la più grande raccolta di favole dell’Occidente, Lo cunto de li cunti, da dove hanno attinto a piene mani i fratelli Grimm, Perrault, Ludwig Tieck, e Cenerentola, ad esempio, è una favola napoletana; lingua geniale di Totò in cento film uno più divertente e sarcastico dell’altro, e che Federico Fellini diceva, pieno di giusta ammirazione, «benefattore dell’umanità». Quello stesso Totò, immenso attore, immensa maschera, immensa marionetta del nostro mondo «marionettizzato», che diceva arrivando in piazza del Duomo: «Dato che siamo a Milano andiamo a vedere il famoso Colosseo!» Per inciso: è così che l’Italia percepisce la famosa Unità. I film del napoletano Troisi sono sottotitolati per l’Italia del nord. Il problema in Italia non è mai stato meridionale, ma, se si segue il corso degli eventi, sempre settentrionale. (…) Cavour non sapeva una parola d’italiano, parlava e scriveva solo in francese. Il notaio dell’Unità d’Italia era piemontese, non italiano. Desiderava ardentemente piegare lo Stivale ai suoi piedi e ai piedi della Savoia. Le repressioni furono così selvagge che, per dire manette, al sud si dice: ‘e lent’e Cavour, cioè gli occhiali di Cavour, che porta
va delle lenti per vederci chiaro e trasmettere il suo sapere, e che non ha visto che fuoco, uccidere e bruciare, e la cui scienza è servita solo ad asservire. Tuttavia era grazie ad un napoletano, scrittore e sapiente, Gianbattista della Porta, che lui portava gli occhiali: grazie a Magia Naturalis, 1589, si dà luce alla prima fabbricazione degli occhiali … Degradare la capitale, lobotomizzare i suoi 40.000 abitanti per km² (9.700 a Parigi) della loro storia e della loro identità, affumicare e ammorbare questa natura che forse è la più bella d’Europa, cementare le strade della Pompei archeologica perché l’Escort-Cavaliere dell’Escort-Italia non si sloghi le caviglie qualora venisse a passare nell’abbandono di questo sito unico al mondo, degradare, degradare, degradare: ecco l’augurio degli “unitari” che, tra stalinismo e fascismo, con la benedizione dello Stato del Vaticano, vogliono contro natura, contro cultura, contro umanità uniformare l’Italia. Il nome degli impostori e dei criminali deve sparire della strade e dalle piazze: una piazza Garibaldi, a Napoli, è come piazzare una piazza Bomba atomica a Hiroshima. Garibaldi, generale d’operetta, aveva paura di ritornare nel sud Italia, temeva, diceva, di essere “linciato” tanto i suoi mercenari di sacco e di corda in camicie rosse dei mattatoi di Buenos Aires, diventati tutti piccoli soldati della mafia, avevano massacrato, torturato, violentato, rapinato le popolazioni … E poi, senza una doppia confederazione Nord-Sud – Stati Confederati del Sud, Stati Confederati del Nord -, l’Italia si spaccherà a fuoco lento come fa da 150 anni, nei quali, a parte qualche auto e qualche vestito, non ha inventato più niente – tranne il miglior modo per abbattere ancora e sempre il sud. Roma non può essere quella che è stata per secoli, la capitale del Vaticano – e di cui il Vaticano si accontenta e smette di riciclare il denaro del crimine … Le camicie rosse del duce Garibaldi sono passate dalla tintoria dei Savoia e sono diventate le camicie nere del duce Mussolini. Tra Mussolini e il Papa, nel 1929 gli accordi lateranensi suggellano la sottomissione dell’Italia al Vaticano. Così va la disunità d’Italia. Napoli, dove l’Europa, prima di esistere come noi la vorremmo, si è stratificata, non ha un ruolo italiano da ricoprire, deve sventare le trappole italiane, la spudorata gestione italiana e deve riprendere il suo posto nel concerto delle capitali europee. Non può più continuare a fare il capro espiatorio di un Italia che vorrebbe renderla capra agli occhi del mondo. In 150 anni di omicidi e di persecuzioni e di furti, Torino, Firenze e Roma (le tre successive capitali della Savoia) non hanno mai potuto tagliare le ali di Parthenope che non smettono di spiegarsi, spesso in un’illegalità benedetta dalla legalità. Ben presto un solo agglomerato si svilupperà tra Caserta e Salerno, una Napoli più grande di Milano, Torino e Roma messe insieme. Bisognerà abituarsi, Napoli non è Ninive, non è Babilonia: ha tremila anni, certo, ma la sua forza e la sua giovinezza non hanno smesso di moltiplicarsi malgrado lo sgomento in cui la storia talvolta la affonda. L’Italia, in fondo, ha sempre avuto paura di Napoli, della civiltà napoletana, della nazione napoletana, e questa paura si è tradotta in una storica xenofobia. (…) “L’Italia è fatta, adesso bisogna fare gli italiani” diceva un personaggio dell’Unità nel 1860. 150 anni dopo si può dire che niente si è fatto, tutto si è disfatto e niente si farà senza di noi, i napoletani. Noi veniamo da lontano, veniamo da Rodi – dove i Greci potevano praticare il loro culto della Sirena, vietato altrove in terra ellena. Veniamo da Rodon, dalla rosa attorno alla quale si riuniscono Omero, Virgilio e Dante. Attorno all’Averno: 0,5 km² d’acqua, una lacrima sulla superficie della terra, una lacrima sulfurea da cui sorgono le parole e le immagini che fecondano il nostro mondo, una lacrima in cui si forgiano le nostre armi.
va delle lenti per vederci chiaro e trasmettere il suo sapere, e che non ha visto che fuoco, uccidere e bruciare, e la cui scienza è servita solo ad asservire. Tuttavia era grazie ad un napoletano, scrittore e sapiente, Gianbattista della Porta, che lui portava gli occhiali: grazie a Magia Naturalis, 1589, si dà luce alla prima fabbricazione degli occhiali … Degradare la capitale, lobotomizzare i suoi 40.000 abitanti per km² (9.700 a Parigi) della loro storia e della loro identità, affumicare e ammorbare questa natura che forse è la più bella d’Europa, cementare le strade della Pompei archeologica perché l’Escort-Cavaliere dell’Escort-Italia non si sloghi le caviglie qualora venisse a passare nell’abbandono di questo sito unico al mondo, degradare, degradare, degradare: ecco l’augurio degli “unitari” che, tra stalinismo e fascismo, con la benedizione dello Stato del Vaticano, vogliono contro natura, contro cultura, contro umanità uniformare l’Italia. Il nome degli impostori e dei criminali deve sparire della strade e dalle piazze: una piazza Garibaldi, a Napoli, è come piazzare una piazza Bomba atomica a Hiroshima. Garibaldi, generale d’operetta, aveva paura di ritornare nel sud Italia, temeva, diceva, di essere “linciato” tanto i suoi mercenari di sacco e di corda in camicie rosse dei mattatoi di Buenos Aires, diventati tutti piccoli soldati della mafia, avevano massacrato, torturato, violentato, rapinato le popolazioni … E poi, senza una doppia confederazione Nord-Sud – Stati Confederati del Sud, Stati Confederati del Nord -, l’Italia si spaccherà a fuoco lento come fa da 150 anni, nei quali, a parte qualche auto e qualche vestito, non ha inventato più niente – tranne il miglior modo per abbattere ancora e sempre il sud. Roma non può essere quella che è stata per secoli, la capitale del Vaticano – e di cui il Vaticano si accontenta e smette di riciclare il denaro del crimine … Le camicie rosse del duce Garibaldi sono passate dalla tintoria dei Savoia e sono diventate le camicie nere del duce Mussolini. Tra Mussolini e il Papa, nel 1929 gli accordi lateranensi suggellano la sottomissione dell’Italia al Vaticano. Così va la disunità d’Italia. Napoli, dove l’Europa, prima di esistere come noi la vorremmo, si è stratificata, non ha un ruolo italiano da ricoprire, deve sventare le trappole italiane, la spudorata gestione italiana e deve riprendere il suo posto nel concerto delle capitali europee. Non può più continuare a fare il capro espiatorio di un Italia che vorrebbe renderla capra agli occhi del mondo. In 150 anni di omicidi e di persecuzioni e di furti, Torino, Firenze e Roma (le tre successive capitali della Savoia) non hanno mai potuto tagliare le ali di Parthenope che non smettono di spiegarsi, spesso in un’illegalità benedetta dalla legalità. Ben presto un solo agglomerato si svilupperà tra Caserta e Salerno, una Napoli più grande di Milano, Torino e Roma messe insieme. Bisognerà abituarsi, Napoli non è Ninive, non è Babilonia: ha tremila anni, certo, ma la sua forza e la sua giovinezza non hanno smesso di moltiplicarsi malgrado lo sgomento in cui la storia talvolta la affonda. L’Italia, in fondo, ha sempre avuto paura di Napoli, della civiltà napoletana, della nazione napoletana, e questa paura si è tradotta in una storica xenofobia. (…) “L’Italia è fatta, adesso bisogna fare gli italiani” diceva un personaggio dell’Unità nel 1860. 150 anni dopo si può dire che niente si è fatto, tutto si è disfatto e niente si farà senza di noi, i napoletani. Noi veniamo da lontano, veniamo da Rodi – dove i Greci potevano praticare il loro culto della Sirena, vietato altrove in terra ellena. Veniamo da Rodon, dalla rosa attorno alla quale si riuniscono Omero, Virgilio e Dante. Attorno all’Averno: 0,5 km² d’acqua, una lacrima sulla superficie della terra, una lacrima sulfurea da cui sorgono le parole e le immagini che fecondano il nostro mondo, una lacrima in cui si forgiano le nostre armi.