Taranto, l’Ilva
e l’industrializzazione del Mezzogiorno
I recenti tragici avvenimenti giudiziari che ci riportano le cronache di Taranto in merito alla questione Ilva imperniata su di una scelta tragicamente paradossale tra una morte lenta dentro o fuori la fabbrica, non meravigliano chi, nato e cresciuto nel Mezzogiorno d’Italia, ha avuto modo di vivere personalmente le tragedie di quello che viene considerato da sempre – ma se riflettiamo “appena ” (nell’arco di 2000 anni di civiltà “meridionale”) da 151 anni – un peso morto che il Paese “civile e produttivo” si porta addosso, appunto, da sempre quale sarebbe il Sud Italia.
A ben vedere la tragedia di Taranto è veramente lo specchio ed il sunto di tante elaborazioni storiche, sociali, politiche, economiche e financo antropologiche che da un secolo e mezzo politici, sindacalisti, professori universitari, fondazioni, commissioni, agenzie speciali, ecc.ecc. sviluppano invano circa la c.d. “questione meridionale”.
La questione Taranto, infatti, in tal senso appare emblematica e molto esaustiva: espressione di una politica dimostratasi fallimentare e miope quanto più spesso disonesta e criminogena, che doveva dare originariamente al Sud nelle intenzioni di grandi personalità, come quella del meridionalista Nitti (ahimè in buona fede ma che prescindevano nei fatti dai territori in cui si sarebbero inserite), pari dignità industriale e di sviluppo economico rispetto al Nord, padre “nobile” della nazione.
Chi scrive è testimone diretto dello scempio fatto nelle terre della Campania in quanto proveniente da una zona molto vicina a quella che oggi è un vero sfascio industriale ed ambientale e si pone come una deturpazione forse irrimediabile quale è quella dell’ex Italsider di Bagnoli a Napoli: esempio di un indirizzo politico sviluppatosi nelle solite clientele che mai hanno dato un vero e stabile beneficio economico e men che mai di salubrità ai luoghi né tanto meno agli esseri umani ivi presenti (a differenza di Casale Monferrato per i bagnolesi i reati ambientali e nei confronti degli operai deceduti commessi dall’azienda sono prescritti).
Tutto ciò, però, non deve meravigliare se si analizza già lo start up della politica industriale nel nostro Paese dagli albori dell’unità nazionale e della successiva piega presa nel corso dei decenni dai tentativi di riassestamento e di sviluppo prodotti “dall’alto” dallo Stato centrale nel Mezzogiorno.
Sarebbe utile partire dalla disamina di una frase molto famosa in ambiente meridionalista: “I meridionali non dovranno mai essere più in grado di intraprendere”, profferita da Carlo Bombrini, senatore del Regno d’Italia e governatore della Banca Nazionale dal 1861 al 1882, nonché capo dell’Ansaldo ed alienatore dei beni del Regno delle Due Sicilie, per capire come già allora fosse palese il debito che le classi dirigenti che avevano fatto l’Italia dovessero saldare con la borghesia imprenditoriale nordica… In tal senso… cosa notiamo dell’attuale apparato industriale meridionale? Cattedrali nel deserto, mostri industriali in località tra le più belle del mondo oramai distrutte e cancerogenizzate, territori vergini e meravigliosi che dovevano costituire il tesoro vero su cui far crescere e ridare fiato alle tradizioni imprenditoriali pre-unitarie meridionali, ma che la classe economica creditrice dei Bombrini si affrettò a liquidare ed a drenare proprio al Nord ( da Mongiana i cui emigrati ed apparati industriali hanno fatto ricca Brescia a Pietrarsa, le cui commesse furono dirottate per esempio proprio all’Ansaldo del banchiere succitato ).
Chi beneficiò dei danari pubblici per il piano di “risorgimento” di Napoli per esempio? Le industrie, i commerci, le attività artigianali pre-unitari locali letteralmente dissanguate dalla classe dei Bombrini (ricordiamo ancora, tra gli altri i cantieri navali di Castellammare di Stabia e la Seteria di S.Leucio) e dalla politica nord-centrica o proprio quei gruppi industriali quali della Terni-Elba, base della futura Ilva, controllata da esponenti della finanza genovese? Perché nell’intervenire per riequilibrare (anche qui sarebbe da aprire un ampio dibattito sulle cause precedentemente accennate del perché occorresse riequilibrare dato che ancora nel 1871 Napoli e la Campania erano tra le più industrializzate zone del Paese come ricordano anche studi della Banca d’Italia in merito al fatto che fino al 1861 non esistevano disparità di sviluppo economico Nord-Sud ) si scelse sempre la via dall’alto?
La risposta la troviamo nei fatti storici comprovati dal più famoso degli interventi pro-Mezzogiorno ovverosia la tanto vituperata – dai leghisti della prima e della seconda ora – Cassa del Mezzogiorno, intervento pubblico STRAORDINARIO in ASSENZA di un’ordinario, per il Sud che si risolse soltanto in un anno in una quota pari all’1% degli investimenti (cassa difatti che ironicamente il compianto genio artistico di Massimo Troisi indicava come cassa da morto per il Mezzogiorno…).
In realtà furono proprio gli industriali del Nord a premere per quest’opzione etero diretta in quanto questa era in funzione squisitamente dei loro interessi: essa difatti favoriva proprio le grandi imprese che (e l’opera onesta di analisi storici e di economisti conosce come ed in che modo sin dall’inizio sia stata protetta dallo Stato centrale l’impresa settentrionale e come questo ne abbia protetto lo sviluppo grazie anche allo smantellamento d’intere filiere industriali meridionali d’origine borbonica, come ho ricordato) avevano (ed hanno ) interesse che al Sud non crescesse un tessuto ricco di imprese industriali concorrenti ed avevano (ed hanno) interesse, che fossero esse a conquistare i mercati del Sud, e non già invece le imprese meridionali a sottrarre ad esse mercati.
In questo quadro si comprende bene nell’ambito della Cassa la creazione al Sud prima d’infrastrutture e solo in un secondo momento d’industrie, nell’ottica di una spesa pubblica molto di frequente di tipo assistenziale (lecita ed illecita) che avrebbe alimentato la maggior domanda di prodotti industriali da parte dei meridionali i quali non trovando un’offerta di prodotti industriali al Sud, si rivolgevano da allora e continuano a farlo, presso le imprese del Nord, con acquisti di prodotti del Nord che, tra l’altro, molto spesso sono di provenienza meridionale in quanto partono dal Sud in direzione Nord per pochi spiccioli e vengono ricomprati inscatolati e confezionati a prezzi maggiorati dal Sud stesso.
Dagli anni ’60 è andato prefigurando il modello economico potremmo ben dire di tipo coloniale italiano con un Nord produttore-venditore ed un Sud mercato di consumo, (e di esportazione di manodopera e cervelli bell’e pronti alla bisogna per un Nord scaricato dei relativi costi sociali e d’istruzione) modello che mostra ora, in epoca di globalizzazione e di crisi mondiale tutti i suoi limiti e fallimenti con un Sud impedito da un lato dalla imprenditoria mafiosa (l’unica che il sistema sembra consentire al Sud ) autoctona strettamente connessa a quella finanziaria d’esportazione e di riciclaggio ( capitali vs appalti di rifiuti tossici industriali settentrionali per esempio ).
La tragedia di Taranto, quindi, ben s’inscrive in questo quadro economico che risale agli albori della Cassa; essa può infatti affiancarsi ad altri disastrosi esempi di corruttele e clientele che, oltre a non rispondere ad un reale fabbisogno energetico, costituirono, come nel caso della costruzione della centrale nucleare del Garigliano (generatrice di veri e propri mostri di mutazione genetica), veri e propri disastri ambientali causati da quelle stesse imprese del Nord che potevano accedere a finanziamenti, di tipo clientelare (clientele etero dirette ed indigene) senza gara d’appalto, che consentivano loro di essere esonerate dall’obbligo di spendere l’intero importo erogato per la realizzazione dell’opera, producendo per quelle un enorme utile e, molte volte, come avvenne, un vergognoso “mordi e fuggi” grazie agli incentivi della Cassa stessa.
Taranto, pertanto, è davvero il simbolo di questo modello economico fallimentare, i cui costi la collettività meridionale paga in una misura intollerabile, e realmente possiamo dire al limite di un omicidio di massa per gli interessi economici dei soliti boiardi di Stato, delle loro clientele nazionali e locali, siano essi settentrionali o meridionali non importa: chiudere Taranto vorrebbe dire mandare sul lastrico una città già per altro pesantemente contaminata dall’Ilva; tenerla aperta senza provvedere in costanza alla bonifica (interventi che i vertici dell’azienda non desiderano accollarsi sebbene siano stati già in passato condannati) sarebbe perpretare una morte lenta in fabbrica ai danni degli operai tarantini: e dunque, come uscirne?
La Magistratura è l’unica soluzione e per quanto? La classe politica sembra esprimersi in termini di mancati investimenti in caso di chiusura dell’impianto, mentre dovrebbe porsi come primo obiettivo quello della salvaguardia alla salute dei cittadini intra ed extra azienda; non sarebbe magari possibile pensare che ad affiancare i vertici Ilva per la bonifica dell’intera azienda e dell’area attigua alla medesima siano, a mezzo di una grande gara internazionale, imprese italiane ed europee prevendendone sgravi e compartecipazioni nel caso d’investimenti finalizzati ad una riconversione che prevedano una riduzione entro tempi certi delle emissioni? La salvezza degli operai e degli altri tarantini non può essere procastinata, occorre pensare ad uno sforzo immediato in sede europea: sapranno i nostri eccelsi “bocconiani” a mettere da parte almeno per una volta i loro interessi di casta?
Fonte: agoravox