La Reggia dei Borbone appartiene agli Italiani.
Accordo firmato, parte la sfida del recupero dopo i saccheggi dei clan e le aste a vuoto.
Il ruolo delle associazioni antiracket.
È nostra, finalmente. Dopo mille tormenti societari e mille razzie vandaliche e mille incubi sul destino d’ineluttabile degrado, la Reggia di Carditello, la stupenda Versailles agreste dei Borbone, appartiene da ieri a tutti gli italiani. Era ora. Anche se adesso viene il difficile: vincere la camorra sul suo terreno.
Erano anni che la magnifica residenza settecentesca progettata come reggia di caccia per Carlo di Borbone da Francesco Collecini, braccio destro di Luigi Vanvitelli, e trasformata poi da Ferdinando IV in una villa delle delizie al centro di una tenuta modello di 2.070 ettari bagnati dalle acque dei Regi Lagni, pareva avviata a diventare un rudere.
Come fosse nell’epoca d’oro, possiamo immaginarlo: campi e vigne e frutteti a perdita d’occhio. Quando ci passò Wolfgang Goethe restò incantato spiegando che bisognava andare di lì «per comprendere cosa vuol dire vegetazione e perché si coltiva la terra. (…) La regione è totalmente piana e la campagna intensamente e diligentemente coltivata come l’aiuola di un giardino».
Finita dopo l’Unità d’Italia nel bottino del re Vittorio Emanuele II, che già aveva le sue tenute dove sfogare la passione venatoria a Venaria e a San Rossore, la reggia agreste fu affidata perché se ne occupasse all’allora capo della camorra locale. Il primo di tanti errori e tante scelleratezze. Che importava, ai Savoia, di quella meravigliosa proprietà terriera?
Oltre mezzo secolo di disinteresse dopo, come ha scritto Gerardo Mazziotti sul Corriere del Mezzogiorno, «gli immobili e l’arredamento passarono dal demanio all’Opera Nazionale Combattenti e i 2.070 ettari della tenuta furono lottizzati e venduti. Rimasero esclusi il fabbricato centrale e i 15 ettari circostanti». Era il 1920. Quasi un secolo fa.
Passata la II Guerra mondiale, durante la quale era stata occupata dai nazisti che andandosene si erano portati via quanto potevano, compresi un po’ di camini, la Reggia di Carditello finì per entrare nel patrimonio immobiliare del Consorzio generale di bonifica del bacino inferiore del Volturno. Un carrozzone destinato a esser assorbito dalla Regione e via via a sprofondare sotto una montagna di debiti mai pagati. Debiti in gran parte nei confronti del Banco di Napoli. Col risultato che, quando questo naufragò, tutto finì ipotecato dalla Sga, la «bad bank» che ammucchiò, dopo il crac, i crediti in sofferenza dell’Istituto fallito.
Certo, se la Regione Campania avesse restituito il dovuto, la faccenda sarebbe stata chiusa prima. Ma dove trovarli, i soldi? E così, la splendida dimora tra Napoli e Caserta che aveva vissuto una sua ultima stagione decorosa quando era stata scelta come sede di prestigio dai responsabili dell’Alta Velocità allora in costruzione tra Roma e Napoli ed era stata perciò sottoposta a un parziale restauro della parte più nobile, era stata abbandonata a se stessa in attesa di trovare un compratore.
Macché, a vuoto la prima asta, a vuoto la seconda, a vuoto la terza… E man mano che la Reggia veniva abbandonata a se stessa e il suo prezzo calava e calava, i camorristi della zona l’hanno cannibalizzata portandosi via tutto: i marmi delle scalinate, gli stucchi, i cancelli, le panche, i camini, i pavimenti dell’altana, l’impianto elettrico, tutto… Era stato installato, dopo il parziale restauro, un sistema d’allarme: rubato anche quello. Per finire insieme con le colonnine delle balaustre, chissà, nella villa di qualche boss.
Metteva il magone, vedere il progressivo e devastante degrado di quel tesoro d’arte e bellezza che ogni paese del mondo, al posto nostro, avrebbe trasformato in una fonte di ricchezza turistica riportandolo magari alla vocazione originaria e cioè quella di un centro di eccellenza dell’agricoltura. Metteva il magone annotare come all’umiliazione dei saccheggi barbarici si fosse sommato l’accumulo di spropositate quantità di immondizia, «normale» e tossica, buttate nelle discariche, «regolari» e clandestine, tutto intorno. Un assedio di puzza e veleni.
Il calvario, ieri, ha avuto una svolta. Preso atto che la vendita all’asta non c’era modo che andasse a buon fine (e meno male, a questo punto) la Sga ha incamerato la Reggia a pagamento del debito. E, ieri mattina, ha firmato un contratto preliminare per cedere la dimora settecentesca al ministero dei Beni culturali e del Turismo che aveva a suo tempo sborsato i soldi per il restauro vanificato dal successivo vandalismo.
L’aveva giurato, Massimo Bray. L’ha fatto. E oggi ha diritto ad assaporare, insieme con i protagonisti di Intesa-San Paolo (subentrati al Banco di Napoli) il miele degli elogi, così raro di questi tempi per chi governa. Evviva. Finalmente sul fronte del nostro patrimonio artistico e culturale è stato battuto un colpo. Bravi.
Restano un problema e una nota d’amarezza. Il problema è che ora la reggia di Carditello dev’essere restituita al suo originario splendore. E non è solo una questione di soldi. Il rischio è che ogni carriola di ghiaia, ogni sacco di cemento, ogni mattone del restauro possano pagare il pedaggio ai Casalesi. E lì lo Stato, a ridosso della Terra dei fuochi, si gioca tutto. Occorrono, con il concorso obbligato degli enti locali e delle associazioni anti-camorra che verranno coinvolti, tre risanamenti paralleli: quello ambientale del territorio avvelenato, quello estetico della Real Delizia dove sono stati strappati perfino brandelli degli affreschi e quello morale di un territorio infiltrato dalla criminalità.
L’amarezza è per la scomparsa di Tommaso Cestrone, il volontario della protezione civile che aveva dedicato la vita, negli ultimi anni, a proteggere ciò che restava della Reggia. Nonostante le minacce. Gli incendi. Le intimidazioni. L’uccisione delle sue pecore. Sarebbe felice, oggi. La notte del 25 dicembre postò su Facebook un messaggio a Bray: «Auguri dalla Reggia di Carditello. Il mio Natale è qua». «Carditello è chiusa da troppo tempo», gli rispose il ministro, «Cercherò una soluzione perché torni alla sua bellezza e sia aperta a tutti». Poco dopo, quella notte, Tommaso se ne andò.
9 gennaio 2014 .
Fonte: www.corriere.it
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