Ci risiamo.
Ancora una volta a Napoli nella zona il cui perimetro si estende fra Miano, Secondigliano e Capodimonte è stata sfiorata la tragedia e Margherita Cancello, Adina Pislaru e Andrea Mormone, precipitati con la loro Fiat Seicento grigia sul fondo di una voragine apertasi improvvisamente verso le ore 23 del primo dicembre scorso in Piazza Regina Elena a Miano, se la sono cavata soltanto con un forte shock.
Il giorno dopo proprio in quel punto del quadrivio, in prossimità della parrocchia di Maria Santissima Assunta in Cielo e all’altezza di un antico crocifisso di bronzo risalente alla fine dell’800 molto venerato nel quartiere, alcune centinaia di ragazzi avrebbero dovuto incontrarsi per dare vita ad una marcia per la legalità.
Sarebbe stata una strage e già si grida vox populi al miracolo per ciò che sarebbe potuto accadere e per fortuna non è accaduto.
D’altra parte anche i tre superstiti sono stati salvati forse proprio grazie al crocifisso che avrebbe impedito, incastrandosi fra le macerie e i detriti, l’ulteriore sprofondamento dell’auto con i tre occupanti.
Comunque siano andate le cose, registriamo l’intervento da manuale degli speleoalpinifluviali appartenenti alla squadra speciale Saf dei Vigili del Fuoco che si sono prodigati per il salvataggio delle persone in uno dei numerosi e difficilmente ponderabili scenari incidentali, che richiedono adeguate tecniche interventiste che un’elite scelta del Corpo ha messo a punto nell’arco degli ultimi anni organizzando duri e selettivi corsi.
Ma l’intera zona non è nuova ad eventi così drammatici e senza tornare troppo indietro nel tempo ricordiamo quel 23 gennaio del 1996 quando, alle 16.20 precise, il quadrivio di Secondigliano fu devastato da un’esplosione spaventosa causata da una fuga di gas; le vittime furono 11 e il corpo della ventiseienne Stefania Bellone non fu mai trovato.
In quella circostanza furono registrate precise responsabilità in quanto un mega-cantiere sotterraneo, che non doveva proprio essere aperto a causa della fragilità del territorio, era diventato operativo, nonostante le proteste a oltranza degli abitanti del quartiere, causando così la tragedia che già tre giorni dopo cadde nell’oblio mediatico a causa dell’incendio del Teatro La Fenice di Venezia.
Ed ancora ricordiamo il dicembre di quello stesso anno quando i due fabbri Franco e Carmine Angrisano, padre e figlio, furono risucchiati con parte della loro bottega, in via Miano, mentre stavano mangiando; ogni tentativo di recupero fu inutile.
Altre vittime sacrificate sull’altare dell’incuria di un territorio che non merita di vivere nell’abbandono.
Tornando al disastro di questi giorni è doveroso ricordare che proprio poche settimane fa il prof. Franco Ortolani, direttore del Dipartimento di pianificazione e scienza del territorio dell’Ateneo Federiciano e Silvana Pagliuca del Consiglio Nazionale delle Ricerche – Isafom, avevano messo in guardia le istituzioni chiedendo ripetutamente di “non sottovalutare il pericolo connesso alla presenza di cavità nel sottosuolo nell’area nord di Napoli”.
L’incontro era stato organizzato, neanche a farlo apposta, dal Comitato di Salvaguardia di Secondigliano presso il Centro Civico Sandro Pertini alla presenza di due assessori comunali e si era accennato anche a un altro improvviso sprofondamento avvenuto il 9 novembre scorso nei pressi dell’aeroporto di Napoli “in seguito all’azione erosiva esercitata da acqua fuoriuscita da una conduttura dell’acquedotto”.
A Miano dai rilievi tecnici emerge che la profondità della voragine ha raggiunto oltre 5 metri, ha una forma ellettica di circa 13-14 metri per 9-10 metri e al di sotto del quadrivio persistono fognature in muratura, tubi dell’acquedotto e del metano, cavi di varia natura; comunque molti sottoservizi sono estremamente superficiali ovvero solo a qualche decina di centimetri al di sotto del selciato.
“Fino alla profondità di circa tre metri si trovano sedimenti alterati e rimaneggiati inglobanti vari, manufatti e sottoservizi; – è scritto nella relazione stilata dal prof. Franco Ortolani e dalla dott.ssa Silvana Pagliuca all’indomani dell’evento – al di sotto si vedono le piroclastiti stratificate (pomici e lapilli) posteriori al Tufo Giallo Napoletano la cui età risale a circa 14mila anni fa…
L’analisi dei dati evidenzia che al di sotto del pacco di sedimenti superficiali si è formata una cavità artificiale la cui base potrebbe essere pochi metri al di sotto dei sottoservizi oppure più profonda intorno a 8-10 metri dal piano di campagna.
La cavità è stata causata dalla fuoriuscita di acqua dai sottoservizi e i sedimenti sono stati trasportati dall’acqua probabilmente parallelamente alle condutture – sostengono ancora gli studiosi – oppure sono stati risucchiati da cavità più profonde preesistenti”.
Dallo studio emerge dunque che non è sufficiente riempire la cavità bensì è necessario che si proceda ad un accertamento sistematico, attraverso sondaggi e carotaggi del terreno, per verificare se esistano o meno cavità più profonde al di sotto dei detriti provocati dal crollo.
“L’evento mette in luce il disordine pericoloso esistente nel sottosuolo e l’assenza di un governo attento ed efficace – si legge nella relazione tecnica – che regolamenti gli interventi in una zona caratterizzata da sedimenti insidiosi che non consentono quasi mai di individuare, prima dei crolli, la formazione di cavità in relazione alla fuoriuscita di fluidi in pressione da condotte idriche e fognarie”.
Ora è sotto gli occhi di tutti che le strade partenopee presentano pericolosi avvallamenti, che i marciapiedi disconnessi e pieni di crepe costituiscono un pericolo per i pedoni, che i tombini e i chiusini sono ostruiti e senza manutenzione da tempo immemorabile, ed ancora che l’intera rete fognaria risulta abbandonata a sé stessa tranne nei casi in cui la banda del buco di turno cerchi di penetrare nei caveau delle banche o degli uffici postali; solo in quel caso, grazie alla pressione delle forze dell’ordine, i tecnici procedono ad ispezioni sistematiche.
Un vero disastro la cui colpa viene sempre fatta ricadere sulla pioggia, poca o molta che sia.
Mentre il ceto politico e l’intero management amministrativo favoleggiano di sviluppo sostenibile e propongono progetti inutili e faraonici i piani di manutenzione, stilati obbligatoriamente ai sensi della Legge Merloni del 1994 e sempre consigliati dal buon senso, rimangono inapplicati nei cassetti di burocrati ben pagati ma colpevolmente inefficienti.
La cultura manutentiva non può diventare un valore condiviso fra tutti i cittadini se chi governa non mostra alcun rispetto nei confronti degli impianti, dei servizi e delle attrezzature che servono per il corretto funzionamento della città e se chi governa, per il periodo in cui rimane in carica, non conserva in uno stato di efficienza o non ripara tutto ciò che trova al momento del suo insediamento.
È uno sfascio continuo e nella nostra città, paradossalmente, funzionano meglio le infrastrutture più antiche che quelle recenti ritenute tecnologicamente avanzate.
I familiari delle vittime dei disastri prima elencati non hanno avuto, a distanza di tanti anni, alcun risarcimento per i gravi danni materiali, morali e affettivi subiti.
Oggi, a Miano, vittime non ce ne sono state per puro miracolo.
Perché le autorità comunali, piuttosto che continuare a vessare i cittadini con tasse inique e balzelli intollerabili a fronte di zero servizi (e non solo quando piove) non comincia a farsi carico della vera volontà dei cittadini, a rappresentarli degnamente e ad attivare piani di manutenzione su vasta scala?
La risposta probabilmente sarà sempre la solita: mancanza di soldi.
E allora violino l’ingiusto patto di stabilità e facciano vedere da che parte stanno, smettendo di pensare solo ai propri stipendi e ai propri privilegi, e uscendo finalmente dalle blindate torri d’avorio dove volontariamente si sono autoconfinati un po’ per status un po’ per paura della gente esasperata.
Siamo certi che i cittadini apprezzerebbero molto una sincera, doverosa e necessaria presa di contatto con il territorio.
La città fino ad ora ha assorbito come una spugna tutte le inadempienze, le incapacità, le colpe e gli errori di una classe politica quasi mai all’altezza dei compiti che derivavano da un preciso mandato elettorale; ora, con la crisi economica che morde e l’impossibilità di applicare l’arte dell’arrangiarsi non ne può più e comincia a dare segnali di insofferenza.
Come non accorgersene?
Ci viene in mente una frase che il lealista borbonico, falsamente definito dalla storiografia ufficiale “brigante”, Domenico Fuoco pronunciò nel 1870 prima di essere ucciso: “Ed apprendano i galantuomini che non bisogna abusare dei cenci perché la collera dei miserabili è terribile ed ha qualcosa della folgore e della tempesta”.
Antonio Tortora