Mi e’ capitato di leggere questo interessante articolo di Vittorio Messori che fu scritto in occasione del centenario della morte di S. Giovanni Bosco. Si tratta, essenzialmente, di alcune profezie che fece contro casa Savoia. Troppo spesso bollate dalla storia come “pressioni da parte del clero oscurantista”, ritornano invece di grande attualità a causa del laicismo imperante nella società odierna e dell’ apostasia della fede che l’ Italia sta vivendo in questo tempo avverso. Mi è sembrato doveroso riportare l’articolo di sana pianta, con tutte le considerazioni dell’ autore che ne indicano una chiave di lettura molto interessante.
Esposito Luca
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Vittorio MESSORI
Le profezie «politiche» di San Giovanni Bosco.Tratto da: Studi Cattolici, 32 (1988) n. 326/327, p. 290-292.
Le profezie «politiche» di San Giovanni Bosco.Tratto da: Studi Cattolici, 32 (1988) n. 326/327, p. 290-292.
Nel centenario della morte di san Giovanni Bosco, un santo tanto amato dagli italiani, Vittorio Messori rievoca alcuni aspetti della sua personalità e del suo rapporto con Dio e con gli uomini, forse inquietanti per lo spirito dei tempi ma illuminanti per chi legga i fatti “sub specie aeternitatis”.
Può essere inquietante -anche per chi si consideri buon cattolico, ma sia cresciuto secondo un certo spirito dei tempi- approfittare del centenario del “dies natalis” del Santo di Valdocco per rivisitare (o scoprire di bel nuovo) i 19 volumi delle “Memorie biografiche di Giovanni Bosco” editi tra il 1898 e il 1939 da G.B. Lemoyne e poi da Eugenio Ceria.
Inquietante perché (avendo fatta nostra la lettura solo «positiva», «scientifica» della storia ed essendoci dunque abituati a considerare irrilevante, per la ricostruzione degli avvenimenti, l’ipotesi-Dio) in queste “Memorie” siamo riportati bruscamente a una prospettiva “provvidenzialista”, a un’ormai del tutto desueta -se non scandalosa- lettura dei fatti “sub specie aeternitatis”.
Se ci è lecito, un riferimento personale: è proprio attorno ad alcuni aspetti del cosiddetto “Risorgimento” che si aggirava la nostra tesi di laurea. I corsi torinesi si tenevano allora -per le facoltà umanistiche- proprio nell’edificio di fianco al palazzo Carignano dove ebbe sede prima il Parlamento Subalpino e poi (nel triennio 1861-1864) quello italiano. A pochi passi da lì, palazzo Madama, sede del Senato, il palazzo Reale con accanto la manica lunga del palazzo delle Cancellerie, sede dei ministeri del Regno. Dunque, non soltanto nelle aule dei corsi o in biblioteca, ma anche recandoci all’università o passeggiando coi compagni tra una lezione e l’altra, si era come circondati da voci che risalivano da quei decenni dell’Ottocento. I decenni di Vittorio Emanuele II ma anche di don Bosco, il quale, per gli storici “laici” e, dunque, i soli considerati «scientifici» sui quali ci formavamo meritava al massimo qualche accenno, in nota.
Eppure, a leggere la narrazione degli avvenimenti “dall’altra parte”, da quella appunto di Valdocco, quel Mistero negato e irriso dalla storiografia moderna ritorna prepotente. Uno scandalo, lo dicevamo, per la mentalità di un mondo che ignora il Gesù “esultante nello Spirito” di cui parla Luca e che ringrazia il Padre per avere nascosto ciò che davvero conta agli intellettuali e ai sapienti in genere. Ma uno scandalo, osservavamo anche questo, pure per certo cattolicesimo che, desiderando sopra ogni cosa conquistare uno status, un diritto di cittadinanza nella “cultura” della città secolare, scuote il capo, tra imbarazzato e compassionevole per chi si ostinasse in una lettura “provvidenzialista” della storia, contrastante con l’idea di un Dio limitatasi, per dirla con Pascal, a “dare un colpetto al mondo per metterlo in moto” e che si sarebbe poi ritirato tra le sue nuvole, lasciando che gli uomini se la cavassero da sé.
Così, come prendere sul serio, come non considerare un visionario, chi si rifacesse alle “Memorie biografiche” per interrogarsi (è solo un esempio tra i tanti) sull’improvvisa morte del Conte di Cavour proprio nel momento del trionfo? E proprio quando l’imprevista costruzione provocata dalle sue mosse più sembrava avere bisogno di lui?
Davvero coincidenze?
Quando, il 17 marzo del 1861, Vittorio Emanuele II fu proclamato re d’Italia e il 25 marzo Cavour indicò l’unica possibile capitale del nuovo Stato in Roma (che, peraltro, non vide mai, come Manzoni, del resto) la situazione per la Chiesa era drammatica: ben 70 i vescovi rimossi dalle loro sedi o incarcerati, centinaia i preti che facevano loro compagnia in prigione, 64 i sacerdoti diocesani e 22 i frati fucilati, soprattutto in quel Sud conquistato dove era stata subito estesa la legge piemontese per la soppressione delle comunità religiose, con 721 conventi confiscati e la dispersione di 12.000 tra monaci e monache. In questo tragico marasma, quando il governo decise che la prima domenica di giugno (che nel 1861 cadeva il giorno 2) si sarebbe celebrata la festa dell’Unità nazionale, il clero fece sapere che non avrebbe potuto partecipare. Pronta la rappresaglia di Cavour che, con una circolare, proibiva la partecipazione delle autorità civili a quella grande processione torinese del Corpus Domini che, anche nei momenti più difficili dei rapporti tra Stato e Chiesa, aveva continuato a rivestire il solennissimo carattere tradizionale, con la presenza del Re, della corte, dello Stato Maggiore, dei ministri, dei deputati, dei senatori.
Era dunque la prima volta che si interrompeva, in Piemonte, questa tradizione. Don Bosco ne fu particolarmente afflitto e disse ai suoi che non presagiva nulla di buono da una simile decisione. I giovani collaboratori e allievi che, venerandolo ormai come un santo, prendevano nascostamente nota di ogni sua parola, avevano appuntato come alla fine del 1860 si fosse lasciato andare a una delle sue profezie di morte inesplicabile, impreveduta: “L’anno prossimo morirà un gran personaggio, un famoso diplomatico, se ne parlerà in tutta Europa come di un fatto gravissimo”. Don Bosco stesso, comunque, dispose che alla processione (fissata per il 30 maggio) il posto lasciato vuoto da deputati e senatori fosse occupato da un numero corrispondente di giovani del suo Oratorio.
“Ed ecco che la sera del 29 maggio, vigilia del Corpus Domini -scrivono le “Memorie biografiche”- il Conte di Cavour, che aveva appena passato i 50 anni, di salute robustissima, rientrato nel suo palazzo era colpito da sincope e restava come morto”. Il 2 giugno, “mentre in tutte le parti del Regno si festeggiava civilmente l’Unità d’Italia, invece di raccogliere i primi onori e i rumorosi applausi, il Conte si aggravava in modo irreparabile”. E il 6 giugno “passava all’eternità”. Le “Memorie” han
no anche cura di ricordare come quel giorno fosse nell’ottava del Corpus Domini, cancellato dal calendario da Cavour, e fosse anche l’anniversario del grande miracolo eucaristico di Torino nel 1453 (un’Ostia innalzatasi dal calice rubato e restata a mezz’aria per ore prima di di ridiscendere nel calice stesso tenuto dal vescovo, circondato da tutta la città in preghiera). «Qual coincidenza!», scrive il Lemoyne che pure non si sente di certo autorizzato a rallegrarsi: in effetti, don Bosco, che già aveva fatto pregare i suoi giovani per la salute del Conte, alla notizia della morte li fece ancor più pregare per la sua salvezza eterna. Nella quale, malgrado tutto, si disse fiducioso, ricordando come Cavour, per parte di madre, fosse parente di Francesco di Sales, di colui dunque sotto il cui nome e la cui protezione aveva messo tutta la sua opera. Non mancò però di osservare che le autorità civili che non erano andate in processione dietro il baldacchino con le Sacre Specie, avevano dovuto andare in processione dietro il feretro di colui che aveva impedito quel gesto religioso.
Davvero “coincidenza” (come fingono di credere le “Memorie”, pur facendo di tutto per indirizzare altrove per una spiegazione)? O davvero uno dei tanti aspetti di quel Mistero che certa storia ignora quando non beffa? Chissà. Certo un possibile “altro modo” per leggere uno degli avvenimenti più traumatici della storia risorgimentale, una morte che fu all’origine di eventi le cui conseguenze, per l’incapacità dei successori del “Tessitore”, il Paese paga forse anche ora.
Che dire poi, tra altri cento, dei casi davvero impressionanti (e di cui non c’è traccia nei libri di storia che si dicono “seri”, se non in qualche allusione polemica a “pressioni operate sul Re da forze clericali oscurantiste”), dei casi, cioè, che accompagnarono l’approvazione della legge Rattazzi, nel 1855? E’ la legge, come è noto, per la confisca dei beni ecclesiastici e per la soppressione di gran parte delle comunità religiose. Fieramente avverso a quella legge -mentre una commissione di quattro teologi cortigiani convocata dal governo l’approvava- don Bosco cominciò col suggerire a un giovane allievo di trascrivere e d’inviare a Palazzo l’atto di fondazione dell’abbazia di Altacomba, in Savoia, l’antico sepolcreto della dinastia. In quell’atto, i Savoia del XII secolo scagliavano maledizioni contro i loro discendenti che avessero osato usurpare le proprietà della Chiesa. Ricevuta la missiva, Vittorio Emanuele (la cui angoscia comincia qui, diventando sempre più tormentosa) fece rimproverare il mittente e, con lui, don Bosco. Il quale, però, sognava di lì a poco un valletto in livrea che gli gridava: «Gran lutto a corte!». Poiché l’esperienza gli aveva mostrato come i suoi sogni fossero spesso profetici, il Santo (spintovi anche dal suo confessore, Cafasso) ritenne suo dovere avvisarne il Sovrano. La lettera non sembrò suscitare reazioni particolari. Da lì a poco un altro sogno: «Non grande, ma grandi lutti a corte!», e ulteriore avvertimento al Re, con l’esplicito legame tra queste visioni notturne e la legge presentata da Rattazzi.
La discussione iniziava alla Camera il 9 gennaio 1855 e subito dopo si metteva in moto una tragica successione che costringeva l’assemblea a continue chiusure per lutto. Tre giorni dopo, in effetti, il 12 gennaio moriva all’improvviso -non aveva che 54 anni- la piissima regina madre, Maria Teresa. Otto giorni dopo, il 20 gennaio, era la volta della moglie del re, Maria Adelaide, 33 anni. L’undici febbraio toccava al solo fratello maschio del sovrano, anch’egli trentatreenne, Ferdinando, duca di Genova. Dicono le “Memorie”: «Non era mai avvenuto, nemmeno nelle pestilenze più crudeli, che in meno di un mese si aprissero tre tombe per accogliervi le salme di principi così strettamente uniti in parentela al Sovrano». Purtroppo la serie non era ancora terminata, ché -mentre la legge, approvata dalla Camera era in discussione al Senato- il 17 maggio di quello stesso anno moriva il figlio nato a Vittorio Emanuele dalla moglie Maria Adelaide l’8 gennaio, pochi giorni prima del decesso. Come la madre -e come tutti gli altri morti di questa storia, del resto- il piccolo (battezzato come Vittorio Emanuele Leopoldo Maria Eugenio) godeva di ottima salute e la sua fine fu improvvisa.
Scrive Lemoyne, impassibile, se non implacabile: “In quattro mesi il Re aveva perduto la madre, la moglie, il fratello e il figlio. Il sogno di don Bosco erasi pienamente avverato”. Il re stesso era del tutto convinto di un misterioso legame tra ciò che Rattazzi, Cavour e la maggioranza della Camera pretendevano che egli firmasse e quei sogni infausti. Tanto che tentò di incontrare don Bosco, andò egli stesso a Valdocco per parlargli ma una serie di strani impedimenti ed equivoci gli impedì di trovarsi faccia a faccia con un prete che, del resto, aveva beneficato (e che beneficherà anche in seguito) e che, sfidato quasi a duello da un generale, protestava di essersi deciso a scrivere al Re proprio per l’affetto di suddito fedele.
Un terribile esempio.
Che pensare (noi, ormai tutti un pò “illuministi”) di vicende di questo tipo? E che succederebbe della reputazione di uno storico universitario se rifiutasse di considerare una “coincidenza” anche quanto fu profetizzato in quei mesi da don Bosco (che su questo fece stampare un apposito opuscolo che rischiò il sequestro, non eseguito solo per timore di ulteriore pubblicità): «La famiglia di chi ruba a Dio non giunge alla quarta generazione»? Umberto II, effimero re per meno di un mese e costretto all’esilio a vita, non era che il terzo successore del sovrano la cui firma sta sotto la legge di soppressione e confisca. Quanto alla “quarta generazione”, ogni lettore di cronache attuali sa quale credito meriti…
Ma, per tornare a colui che la storia cortigiana volle chiamare “Re galantuomo”, a quanto pare don Bosco ebbe la vista lunga anche sulla sua morte. Dal 1862 non si recitavano più, nella liturgia della Chiesa italiana, le preghiere per il Sovrano. Alla fine di dicembre del 1877 il Santo, in partenza per Roma, stupì tutti disponendo che all’Oratorio si riprendessero gli “Oremus pro rege nostro”. Alle domande dei superiori salesiani, rispose lasciando intendere che l’interessato ne avrebbe avuto presto particolarmente bisogno. Pochi giorni dopo, il 9 gennaio (ancora una volta all’improvviso) Vittorio Emanuele moriva a meno di 58 anni in quel Quirinale in cui gli “italiani” erano penetrati il 20 settembre di 7 anni prima con l’aiuto di un fabbro che scardinò il portone, chiuso dagli Svizzeri prima d’andarsene. Da Roma, don Bosco scrisse al conte Cays, grande amico e benefattore: «Il lutto del Quirinale è servito per chi l’aveva preparato» (credendo infatti imminente la morte di Pio IX, il sovrano aveva disposto perché il palazzo reale, già papale, preparasse le gramaglie). Continuava il Santo: «Avvi però grave motivo di benedire il Signore. Con ricevere i SS. Sacramenti assicurò, speriamo, la salvezza dell’anima sua. Ma darà un terribile esempio a tutta l’Europa che vede un re in buona età, sano, robusto e in tre giorni fatto cadavere».
Sapeva essere schietto e spiccio, questo nostro don Bosco. Come tutti i santi, del resto. Al pari di loro, poi, non temeva di venerare il “digitus Dei” anche nella cronaca che, di giorno in giorno, si fa storia. Sembra che noi, cristiani di questo scorcio del secondo millennio, abbiamo perduto, o rifiutato, lo sguardo che penetra aldilà dell’apparente casualità. Un modo per diventare credenti “adulti”? Per adeguarsi al brancolare di “ciechi che guidano altri ciechi” e che pur affermano di vedere meglio che ogni altro?
Inquietante perché (avendo fatta nostra la lettura solo «positiva», «scientifica» della storia ed essendoci dunque abituati a considerare irrilevante, per la ricostruzione degli avvenimenti, l’ipotesi-Dio) in queste “Memorie” siamo riportati bruscamente a una prospettiva “provvidenzialista”, a un’ormai del tutto desueta -se non scandalosa- lettura dei fatti “sub specie aeternitatis”.
Se ci è lecito, un riferimento personale: è proprio attorno ad alcuni aspetti del cosiddetto “Risorgimento” che si aggirava la nostra tesi di laurea. I corsi torinesi si tenevano allora -per le facoltà umanistiche- proprio nell’edificio di fianco al palazzo Carignano dove ebbe sede prima il Parlamento Subalpino e poi (nel triennio 1861-1864) quello italiano. A pochi passi da lì, palazzo Madama, sede del Senato, il palazzo Reale con accanto la manica lunga del palazzo delle Cancellerie, sede dei ministeri del Regno. Dunque, non soltanto nelle aule dei corsi o in biblioteca, ma anche recandoci all’università o passeggiando coi compagni tra una lezione e l’altra, si era come circondati da voci che risalivano da quei decenni dell’Ottocento. I decenni di Vittorio Emanuele II ma anche di don Bosco, il quale, per gli storici “laici” e, dunque, i soli considerati «scientifici» sui quali ci formavamo meritava al massimo qualche accenno, in nota.
Eppure, a leggere la narrazione degli avvenimenti “dall’altra parte”, da quella appunto di Valdocco, quel Mistero negato e irriso dalla storiografia moderna ritorna prepotente. Uno scandalo, lo dicevamo, per la mentalità di un mondo che ignora il Gesù “esultante nello Spirito” di cui parla Luca e che ringrazia il Padre per avere nascosto ciò che davvero conta agli intellettuali e ai sapienti in genere. Ma uno scandalo, osservavamo anche questo, pure per certo cattolicesimo che, desiderando sopra ogni cosa conquistare uno status, un diritto di cittadinanza nella “cultura” della città secolare, scuote il capo, tra imbarazzato e compassionevole per chi si ostinasse in una lettura “provvidenzialista” della storia, contrastante con l’idea di un Dio limitatasi, per dirla con Pascal, a “dare un colpetto al mondo per metterlo in moto” e che si sarebbe poi ritirato tra le sue nuvole, lasciando che gli uomini se la cavassero da sé.
Così, come prendere sul serio, come non considerare un visionario, chi si rifacesse alle “Memorie biografiche” per interrogarsi (è solo un esempio tra i tanti) sull’improvvisa morte del Conte di Cavour proprio nel momento del trionfo? E proprio quando l’imprevista costruzione provocata dalle sue mosse più sembrava avere bisogno di lui?
Davvero coincidenze?
Quando, il 17 marzo del 1861, Vittorio Emanuele II fu proclamato re d’Italia e il 25 marzo Cavour indicò l’unica possibile capitale del nuovo Stato in Roma (che, peraltro, non vide mai, come Manzoni, del resto) la situazione per la Chiesa era drammatica: ben 70 i vescovi rimossi dalle loro sedi o incarcerati, centinaia i preti che facevano loro compagnia in prigione, 64 i sacerdoti diocesani e 22 i frati fucilati, soprattutto in quel Sud conquistato dove era stata subito estesa la legge piemontese per la soppressione delle comunità religiose, con 721 conventi confiscati e la dispersione di 12.000 tra monaci e monache. In questo tragico marasma, quando il governo decise che la prima domenica di giugno (che nel 1861 cadeva il giorno 2) si sarebbe celebrata la festa dell’Unità nazionale, il clero fece sapere che non avrebbe potuto partecipare. Pronta la rappresaglia di Cavour che, con una circolare, proibiva la partecipazione delle autorità civili a quella grande processione torinese del Corpus Domini che, anche nei momenti più difficili dei rapporti tra Stato e Chiesa, aveva continuato a rivestire il solennissimo carattere tradizionale, con la presenza del Re, della corte, dello Stato Maggiore, dei ministri, dei deputati, dei senatori.
Era dunque la prima volta che si interrompeva, in Piemonte, questa tradizione. Don Bosco ne fu particolarmente afflitto e disse ai suoi che non presagiva nulla di buono da una simile decisione. I giovani collaboratori e allievi che, venerandolo ormai come un santo, prendevano nascostamente nota di ogni sua parola, avevano appuntato come alla fine del 1860 si fosse lasciato andare a una delle sue profezie di morte inesplicabile, impreveduta: “L’anno prossimo morirà un gran personaggio, un famoso diplomatico, se ne parlerà in tutta Europa come di un fatto gravissimo”. Don Bosco stesso, comunque, dispose che alla processione (fissata per il 30 maggio) il posto lasciato vuoto da deputati e senatori fosse occupato da un numero corrispondente di giovani del suo Oratorio.
“Ed ecco che la sera del 29 maggio, vigilia del Corpus Domini -scrivono le “Memorie biografiche”- il Conte di Cavour, che aveva appena passato i 50 anni, di salute robustissima, rientrato nel suo palazzo era colpito da sincope e restava come morto”. Il 2 giugno, “mentre in tutte le parti del Regno si festeggiava civilmente l’Unità d’Italia, invece di raccogliere i primi onori e i rumorosi applausi, il Conte si aggravava in modo irreparabile”. E il 6 giugno “passava all’eternità”. Le “Memorie” han
no anche cura di ricordare come quel giorno fosse nell’ottava del Corpus Domini, cancellato dal calendario da Cavour, e fosse anche l’anniversario del grande miracolo eucaristico di Torino nel 1453 (un’Ostia innalzatasi dal calice rubato e restata a mezz’aria per ore prima di di ridiscendere nel calice stesso tenuto dal vescovo, circondato da tutta la città in preghiera). «Qual coincidenza!», scrive il Lemoyne che pure non si sente di certo autorizzato a rallegrarsi: in effetti, don Bosco, che già aveva fatto pregare i suoi giovani per la salute del Conte, alla notizia della morte li fece ancor più pregare per la sua salvezza eterna. Nella quale, malgrado tutto, si disse fiducioso, ricordando come Cavour, per parte di madre, fosse parente di Francesco di Sales, di colui dunque sotto il cui nome e la cui protezione aveva messo tutta la sua opera. Non mancò però di osservare che le autorità civili che non erano andate in processione dietro il baldacchino con le Sacre Specie, avevano dovuto andare in processione dietro il feretro di colui che aveva impedito quel gesto religioso.
Davvero “coincidenza” (come fingono di credere le “Memorie”, pur facendo di tutto per indirizzare altrove per una spiegazione)? O davvero uno dei tanti aspetti di quel Mistero che certa storia ignora quando non beffa? Chissà. Certo un possibile “altro modo” per leggere uno degli avvenimenti più traumatici della storia risorgimentale, una morte che fu all’origine di eventi le cui conseguenze, per l’incapacità dei successori del “Tessitore”, il Paese paga forse anche ora.
Che dire poi, tra altri cento, dei casi davvero impressionanti (e di cui non c’è traccia nei libri di storia che si dicono “seri”, se non in qualche allusione polemica a “pressioni operate sul Re da forze clericali oscurantiste”), dei casi, cioè, che accompagnarono l’approvazione della legge Rattazzi, nel 1855? E’ la legge, come è noto, per la confisca dei beni ecclesiastici e per la soppressione di gran parte delle comunità religiose. Fieramente avverso a quella legge -mentre una commissione di quattro teologi cortigiani convocata dal governo l’approvava- don Bosco cominciò col suggerire a un giovane allievo di trascrivere e d’inviare a Palazzo l’atto di fondazione dell’abbazia di Altacomba, in Savoia, l’antico sepolcreto della dinastia. In quell’atto, i Savoia del XII secolo scagliavano maledizioni contro i loro discendenti che avessero osato usurpare le proprietà della Chiesa. Ricevuta la missiva, Vittorio Emanuele (la cui angoscia comincia qui, diventando sempre più tormentosa) fece rimproverare il mittente e, con lui, don Bosco. Il quale, però, sognava di lì a poco un valletto in livrea che gli gridava: «Gran lutto a corte!». Poiché l’esperienza gli aveva mostrato come i suoi sogni fossero spesso profetici, il Santo (spintovi anche dal suo confessore, Cafasso) ritenne suo dovere avvisarne il Sovrano. La lettera non sembrò suscitare reazioni particolari. Da lì a poco un altro sogno: «Non grande, ma grandi lutti a corte!», e ulteriore avvertimento al Re, con l’esplicito legame tra queste visioni notturne e la legge presentata da Rattazzi.
La discussione iniziava alla Camera il 9 gennaio 1855 e subito dopo si metteva in moto una tragica successione che costringeva l’assemblea a continue chiusure per lutto. Tre giorni dopo, in effetti, il 12 gennaio moriva all’improvviso -non aveva che 54 anni- la piissima regina madre, Maria Teresa. Otto giorni dopo, il 20 gennaio, era la volta della moglie del re, Maria Adelaide, 33 anni. L’undici febbraio toccava al solo fratello maschio del sovrano, anch’egli trentatreenne, Ferdinando, duca di Genova. Dicono le “Memorie”: «Non era mai avvenuto, nemmeno nelle pestilenze più crudeli, che in meno di un mese si aprissero tre tombe per accogliervi le salme di principi così strettamente uniti in parentela al Sovrano». Purtroppo la serie non era ancora terminata, ché -mentre la legge, approvata dalla Camera era in discussione al Senato- il 17 maggio di quello stesso anno moriva il figlio nato a Vittorio Emanuele dalla moglie Maria Adelaide l’8 gennaio, pochi giorni prima del decesso. Come la madre -e come tutti gli altri morti di questa storia, del resto- il piccolo (battezzato come Vittorio Emanuele Leopoldo Maria Eugenio) godeva di ottima salute e la sua fine fu improvvisa.
Scrive Lemoyne, impassibile, se non implacabile: “In quattro mesi il Re aveva perduto la madre, la moglie, il fratello e il figlio. Il sogno di don Bosco erasi pienamente avverato”. Il re stesso era del tutto convinto di un misterioso legame tra ciò che Rattazzi, Cavour e la maggioranza della Camera pretendevano che egli firmasse e quei sogni infausti. Tanto che tentò di incontrare don Bosco, andò egli stesso a Valdocco per parlargli ma una serie di strani impedimenti ed equivoci gli impedì di trovarsi faccia a faccia con un prete che, del resto, aveva beneficato (e che beneficherà anche in seguito) e che, sfidato quasi a duello da un generale, protestava di essersi deciso a scrivere al Re proprio per l’affetto di suddito fedele.
Un terribile esempio.
Che pensare (noi, ormai tutti un pò “illuministi”) di vicende di questo tipo? E che succederebbe della reputazione di uno storico universitario se rifiutasse di considerare una “coincidenza” anche quanto fu profetizzato in quei mesi da don Bosco (che su questo fece stampare un apposito opuscolo che rischiò il sequestro, non eseguito solo per timore di ulteriore pubblicità): «La famiglia di chi ruba a Dio non giunge alla quarta generazione»? Umberto II, effimero re per meno di un mese e costretto all’esilio a vita, non era che il terzo successore del sovrano la cui firma sta sotto la legge di soppressione e confisca. Quanto alla “quarta generazione”, ogni lettore di cronache attuali sa quale credito meriti…
Ma, per tornare a colui che la storia cortigiana volle chiamare “Re galantuomo”, a quanto pare don Bosco ebbe la vista lunga anche sulla sua morte. Dal 1862 non si recitavano più, nella liturgia della Chiesa italiana, le preghiere per il Sovrano. Alla fine di dicembre del 1877 il Santo, in partenza per Roma, stupì tutti disponendo che all’Oratorio si riprendessero gli “Oremus pro rege nostro”. Alle domande dei superiori salesiani, rispose lasciando intendere che l’interessato ne avrebbe avuto presto particolarmente bisogno. Pochi giorni dopo, il 9 gennaio (ancora una volta all’improvviso) Vittorio Emanuele moriva a meno di 58 anni in quel Quirinale in cui gli “italiani” erano penetrati il 20 settembre di 7 anni prima con l’aiuto di un fabbro che scardinò il portone, chiuso dagli Svizzeri prima d’andarsene. Da Roma, don Bosco scrisse al conte Cays, grande amico e benefattore: «Il lutto del Quirinale è servito per chi l’aveva preparato» (credendo infatti imminente la morte di Pio IX, il sovrano aveva disposto perché il palazzo reale, già papale, preparasse le gramaglie). Continuava il Santo: «Avvi però grave motivo di benedire il Signore. Con ricevere i SS. Sacramenti assicurò, speriamo, la salvezza dell’anima sua. Ma darà un terribile esempio a tutta l’Europa che vede un re in buona età, sano, robusto e in tre giorni fatto cadavere».
Sapeva essere schietto e spiccio, questo nostro don Bosco. Come tutti i santi, del resto. Al pari di loro, poi, non temeva di venerare il “digitus Dei” anche nella cronaca che, di giorno in giorno, si fa storia. Sembra che noi, cristiani di questo scorcio del secondo millennio, abbiamo perduto, o rifiutato, lo sguardo che penetra aldilà dell’apparente casualità. Un modo per diventare credenti “adulti”? Per adeguarsi al brancolare di “ciechi che guidano altri ciechi” e che pur affermano di vedere meglio che ogni altro?