UNITA’ D’ITALIA: PARLARE NON E’ SPARARE
di Lino Patruno
Non se ne deve parlare. Lo chiede una petizione firmata da una docente dell’università di Bari dopo la mozione del M5S per l’istituzione in Puglia, il 13 febbraio, della Giornata della Memoria per le vittime meridionali del processo di Unità d’Italia. La petizione on line si attende tre decisioni dal governatore Emiliano. Uno, bloccare l’iniziativa. Due, non finanziare alcuna pubblica celebrazione. Tre, non coinvolgere le scuole in alcun modo. Essendo una petizione, non è un ordine. Petizione di privati cittadini dopo che la mozione in consiglio regionale (a nome di tutti i cittadini) è stata approvata da tutti tranne quattro. E condivisa dallo stesso Emiliano.
Ma la petizione giunge dopo che cinque autorevoli storici (sempre dell’università di Bari) avevano definito <operazione neoborbonica> la mozione. Preoccupati che si possa dire agli studenti che il Mezzogiorno è arretrato per colpa dell’unificazione. E che il brigantaggio è stato qualcosa di diverso dai sanfedisti del cardinale Ruffo contro i giacobini. Perché tutto questo sarebbe propaggine estrema di un meridionalismo <piagnone> e rivendicazionista. Francamente (concludono) un epilogo del meridionalismo storico <forse prevedibile>, ma del quale c’è poco da rallegrarsi.
Se questo epilogo del meridionalismo storico (dalle mille facce, peraltro) era <forse prevedibile>, ci si chiede perché i nostri storici non siano intervenuti prima che diventasse grande. Raccontando in modo convincente una verità che evidentemente è messa in discussione. E chiedendosi perché lo è. Fino al punto che si istituisce una Giornata della Memoria che, oltre che commemorare, si propone di mettere appunto in discussione. Cioè discutere quanto era considerato indiscutibile, e indiscusso: il modo in cui si è fatta l’Unità d’Italia. Non di negarla.
I nostri docenti sanno bene che oggi i dogmi fanno venire l’orticaria anche a un papa Francesco. E che il tempo ha scalfito (senza che i Borbone c’entrassero nulla) altri dogmi. Quello della Resistenza, per dire, che fra l’altro è un secondo mito fondativo d’Italia dopo l’Unità, una Rifondazione. Tema sul quale il silenzio doveva impedire che emergessero risvolti di latente guerra civile pur per una sacra lotta che ci ha restituito alla democrazia e alla civiltà dopo il fascismo. Poi è venuto fuori un Giampaolo Pansa a parlarci del sangue dei vinti (l’eccidio dei fascisti) cui si è risposto stalinisticamente demonizzandolo. E figuriamoci quando ha parlato del sangue fra i vincitori, l’eliminazione di concorrenti scomodi per il futuro comunista che sognavano di imporre.
No, non si doveva parlare delle foibe, la pulizia etnica con la quale i partigiani jugoslavi di Tito regolarono a modo loro i conti con gli italiani considerati compromessi col regime. Cinquemila buttati nelle fosse. E per i quali si è istituito un Giorno del Ricordo oltre 60 anni dopo. Perché per tutto quel tempo gli storici che decidono ciò di cui si deve parlare o no avevano deciso che non se ne parlasse. Come ancòra non si parla delle centinaia di migliaia di italiani non solo deportati dalle terre dalmate-istriane ma accolti a sputi ovunque nel loro stesso Paese.
No, non si doveva parlare di Mussolini e di quel rapporto con gli italiani inizialmente più sentimentale che fra dittatore e sottomessi. E Renzo De Felice doveva chiamarsi Renzo De Felice perché non finisse dietro la lavagna in università nelle quali, più che aria, si respirava egemonia di sinistra. Magari, chissà, non si doveva parlare dell’Olocausto, e che pacchia sarebbe stata per chi continua a dire che è tutta una bufala. Non si doveva parlare, chissà, della pedofilia nella chiesa, e non se ne è parlato finché non è scoppiata fra i piedi di una chiesa cui neanche il suddetto Francesco riesce a raddrizzare la testa. E chissà, non si doveva parlare del patto Stato-mafia, delegato alla solita magistratura da una politica che mette la polvere sotto il tappeto come a volte gli storici.
E quanto alla temuta incursione nelle aule, è stato un Galli della Loggia a dire con sconcerto che ormai è sempre diffusa nelle scuole del Sud la convinzione che sull’Unità non l’hanno raccontata tutta. Allora gli storici si degnino di accompagnarsi con i loro critici nelle scuole, invece di lanciare i <niet>. Per parlare, non per tacere. Per spiegare ai ragazzi del Sud perché devono ancòra emigrare. Anche se c’è chi dice, basta, raccontiamo il Sud in altro modo, come comunque si fa. E se poi si accusa Emiliano di volere con l’operazione <politica> del 13 febbraio raggiungere il senso comune del suo <popolo>, cosa fanno contro questo senso comune: proibiscono e basta?
La Lega Nord è nata in Italia nel silenzio assordante degli storici, e non solo, meridionali. E la storia (non meno della chimica o della fisica o della medicina) si basa sull’evoluzione delle conoscenze, non sull’immobilismo dogmatico. Che allora sarebbe solo potere. No, non si abbia paura.
(Gazzetta del Mezzogiorno, 28 luglio 2017)